La notte tra il 16 e il 17 giugno ha segnato un punto di non ritorno nella già drammatica escalation tra Israele e Iran. Le parole del premier israeliano Benjamin Netanyahu, pronunciate in conferenza stampa e immediatamente rilanciate dalle agenzie di tutto il mondo, hanno assunto un tono da ultimatum bellico: “Uccidere Khamenei potrebbe porre fine al conflitto”. Una dichiarazione che non ha precedenti nella retorica israeliana e che rappresenta un salto di qualità in termini di minacce dirette contro il vertice della Repubblica islamica.
Netanyahu, bombe e ultimatum: lo spettro della guerra totale tra Israele e Iran
A fare da sfondo, un’escalation militare sul campo che non conosce tregua. Missili sono piovuti nella notte su Tel Aviv e Haifa, mentre in Iran le bombe hanno colpito la sede della tv di Stato a Teheran. L’attacco più grave, però, ha interessato la raffineria del gruppo Bazan ad Haifa, dove si registrano almeno tre vittime e gravi danni alle infrastrutture. Tutti gli impianti del complesso sono stati chiusi in via precauzionale. Le forze di difesa israeliane (Idf) hanno inoltre annunciato di aver colpito il sito di arricchimento dell’uranio di Natanz, obiettivo simbolico e strategico nel programma nucleare iraniano.
Gli Stati Uniti tra pressioni e distanze
Nel mezzo della tempesta, gli Stati Uniti cercano di mantenere una posizione di equilibrio difficile. Per Donald Trump: “Sarebbe folle se l’Iran non firmasse un accordo ora”. L’ex presidente, noto per aver stracciato nel 2018 l’accordo sul nucleare firmato da Obama, si mostra ora aperto alla trattativa, pur ribadendo con forza: “Non voglio che l’Iran abbia armi nucleari”.
Parole che segnano un cambio di tono rispetto al passato recente, ma che restano ambigue. Washington osserva con attenzione, consapevole che un’ulteriore destabilizzazione del Medio Oriente potrebbe travolgere gli equilibri regionali e avere conseguenze gravi anche sul piano economico e della sicurezza globale. Il G7 in corso in Canada ha finora prodotto soltanto una bozza di accordo per la de-escalation, che Trump ha dichiarato di non voler firmare, alimentando ulteriore incertezza.
Il ruolo marginale dell’Europa
L’Unione europea si ritrova, ancora una volta, nel ruolo di spettatore preoccupato ma poco incisivo. Il tentativo di mediazione affidato al Cremlino è stato bocciato apertamente da Bruxelles, che considera “non credibile” l’intervento russo in veste di pacificatore, viste le alleanze di Mosca con Teheran e la sua posizione isolata dopo l’invasione dell’Ucraina. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha avuto un bilaterale con Trump nel corso del vertice canadese, ma le distanze restano ampie.
Da Roma, la premier Giorgia Meloni prova a ritagliarsi un ruolo di mediatrice. In un intervento ufficiale ha dichiarato: “Costruire pace, stabilità e crescita per un Occidente più forte”. L’Italia starebbe lavorando a un’iniziativa diplomatica congiunta per un cessate il fuoco immediato nella Striscia di Gaza, ma i margini d’azione appaiono ridotti. Intanto, da Bruxelles giunge un’apertura sulla questione dei dazi con gli Stati Uniti: l’Unione europea è pronta a un accordo che riporti al 10% le tariffe, cercando di evitare che la guerra commerciale aggravi una situazione internazionale già esplosiva.
L’ombra lunga del nucleare
Il bersaglio scelto da Israele, il sito di Natanz, ha un valore altamente simbolico. È il cuore del programma nucleare iraniano, già oggetto di attacchi cyber in passato e costantemente sorvegliato dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica. Il fatto che l’Idf ne rivendichi il bombardamento mostra come l’obiettivo di Tel Aviv non sia solo la deterrenza, ma la distruzione preventiva delle capacità iraniane. Lo scenario evoca analogie con le campagne contro l’Iraq negli anni Novanta, ma con la consapevolezza che stavolta le ritorsioni sono già in atto.
Israele ha inoltre dichiarato di aver “distrutto una quantità enorme di lanciatori” utilizzati dai gruppi armati filo-iraniani nelle ultime settimane. Un dato che, se confermato, dimostra la volontà di portare avanti un conflitto a intensità crescente. Il rischio, a questo punto, è che il conflitto non si limiti più ai proxy regionali – Hezbollah, Hamas, le milizie sciite in Siria e Iraq – ma diventi uno scontro diretto tra stati. Con tutte le conseguenze del caso, compresa una possibile corsa agli armamenti o un intervento americano in caso di attacco diretto a Israele.