Nel tardo pomeriggio di ieri, Vladimir Putin e Xi Jinping si sono rinchiusi per sette ore nei saloni dorati del Cremlino. L’incontro, il più lungo mai avvenuto tra i due leader dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, ha prodotto una dichiarazione congiunta di altissimo profilo simbolico: “Le nostre relazioni non sono contro nessuno, ma servono a contrastare il bullismo egemonico”. La formula è scelta con cura. Bullismo, come se le bombe ucraine piovessero per capriccio. Egemonico, ma detto da chi l’egemonia l’ha cercata con carri armati e repressione. La pace, nella narrativa russo-cinese, passa per l’oblio della guerra.
Putin e Xi, le sette ore del teatro imperiale
Non c’è un trattato, non c’è un’alleanza formale. Ma Putin e Xi si intendono, si servono e si tutelano. La Russia ha bisogno della Cina per vendere gas, petrolio, materie prime e comprare droni e tecnologia. La Cina ha bisogno della Russia per evitare l’isolamento strategico, offrendo in cambio copertura diplomatica e retorica. È un patto tra autocrati, privo di cerimonie ma carico di conseguenze. E serve anche a distrarre l’attenzione interna: mentre Xi parla di cooperazione, si intensifica la repressione sugli oppositori. Mentre Putin promette equilibrio, prepara la parata del V-Day e i missili continuano a cadere su Kharkiv.
Sette ore per riscrivere la mappa, mentre Zelensky denuncia il cinismo
Zelensky, da Kiev, non ha atteso la fine dell’incontro. Ha detto: “Domani vedremo una parata di cinismo e menzogne”. E i fatti gli danno ragione. Perché nella notte, mentre Mosca e Pechino proclamavano una “tregua fragile”, i raid russi hanno colpito infrastrutture energetiche e postazioni civili. Non è una tregua, è marketing geopolitico. È l’ennesima copertura diplomatica per una guerra che non si vuole fermare, ma che si preferisce negare. Le parole di Xi, secondo cui “abbiamo difeso la pace spalla a spalla”, suonano come una battuta in uno spettacolo tragico.
L’eredità dell’8 maggio tra retorica e macerie
Il Giorno della Vittoria, per la Russia, è molto più di una commemorazione storica. È la coreografia ufficiale del potere. La parata serve a legittimare l’ordine attuale con l’eroismo del passato. Ma quest’anno sarà diversa. Più piccola, più blindata, più stonata. La guerra in Ucraina ha tolto smalto alle celebrazioni. I caduti russi non sono più solo quelli del 1945, ma anche i ragazzi spediti al fronte con pochi mesi di addestramento e senza ritorno. E mentre Putin parla con Xi di “relazioni al livello più alto della storia”, i soldati russi tornano a casa in silenzio, dentro sacchi di plastica.
Un Giano bifronte del XXI secolo
Putin e Xi mostrano i muscoli ma con i guanti. Dicono “pace” e praticano il dominio. Parlano di “multipolarismo” ma temono ogni forma di dissenso interno. Costruiscono una retorica alternativa all’Occidente, ma ne imitano le forme, lo stile, i simboli del potere. È il Giano bifronte del XXI secolo: nazionalista e internazionalista, bellicista e pacificato, moderno e profondamente antico. E se davvero vogliono riscrivere l’ordine mondiale, dovranno prima convincere i propri popoli che il prezzo del silenzio vale la narrazione che gli stanno vendendo.