Raul Gardini, visionario, spregiudicato, avanti rispetto ai suoi tempi

 
Un colpo di pistola, trent’anni fa, chiuse la vita di Raul Gardini. Trent’anni e ancora di lui si parla, come è giusto che sia, non solo per la tragicità dell’epilogo del suo percorso terreno, quanto per come egli arrivò a decidere che, con una pallottola in testa, avrebbe evitato quello che per lui era l’oltraggio del carcere, ma prima ancora l’onta di dovere essere portato in manette in uno dei luoghi simbolo della milanesità, il Palazzo di Giustizia.

Raul Gardini, visionario, spregiudicato, avanti rispetto ai suoi tempi

Raul Gardini è stato un personaggio iconico della finanza italiana, caratterizzato da un coraggio imprenditoriale che spesso sconfinava nella spericolatezza e, quindi, nel convincimento di essere ‘’invincibile’’ in tutte le espressioni dell’uomo: dagli affari, via via, alla cultura, allo sport che per lui si traduceva soltanto nel cavalcare le onde, a bordo delle sue ‘’barche’’. Oppure nell’arricchire la collana delle sue proprietà, andando anche contro la logica e gli equilibri delle proprie finanze. Eppure non si poneva limiti, e solo perché era Raul Gardini. 

Quando era al culmine della sua parabola, cominciata all’ombra del suocero, Serafino Ferruzzi (che lo accolse come un figlio, con un passaggio di consegne quasi naturale alla morte del fondatore del gruppo e che lo rese inviso alla famiglia del capostipite), Gardini comprava tutto quel che gli piaceva. Poco importava se era una barca, un palazzo di Venezia perseguitato da leggende nefaste e dolorose, o anche alcune delle più importanti vetrerie di Murano. Quest’uomo che, nel bene e nel male, ha segnato molti anni a cavallo tra la prima e la seconda repubblica (quella sorta dalle ceneri di ‘’Mani pulite’’), è stato coraggioso al limite dell’avventatezza, ma mai indietreggiando, anche quando aveva la percezione di essere andato oltre.

Parlare di Raul Gardini, raccontarne la vita, o, come direbbe il poeta, l’armi e gli amori, è un compito di cui Andrea Pasqualetto e Lucio Trevisan si sono fatti carico e il frutto del loro impegno, ‘’Di vento e di terra’’ (edito da Solferino), è il compendio di una vita, sempre alla massima velocità, vedendo ciò che per gli altri era impossibile anche solo intuire. 

Devono fare riflettere le considerazioni che Gardini, nel 1986 (quasi un’era geologica fa), fece nel corso di una audizione alla Camera, toccando temi che oggi sono drammaticamente d’attualità, come la crisi energetica. 

‘’L’Italia - disse forse sorprendendo i commissari, ancora poco adusi ad occuparsi di questi argomenti con lo sguardo realmente volto al futuro -   deve diventare autonoma sul piano energetico, altrimenti rimarremo sempre un Paese dipendente dagli altri’’. E ancora: ‘’Ci vuole il coinvolgimento diretto dello Stato. Quello di cui sto parlando è un sogno, ma è un sogno realizzabile: vedere l’Italia produttrice di energia verde, grazie all’etanolo. Inquina meno ed è altamente redditizio a livello di rendimento’’. 

Un visionario che viaggiava sulle ali dell’utopia, ma anche uno che guardava in casa sua, dal momento che, per produrre l’etanolo, servono i cereali. Quelli di cui traboccavano i suoi silos. 

Un santo? No, ma lui di miracoli si sentiva di poterne fare, a costo di azzardare, di rischiare l’osso del collo. Come quando capì, grazie all’assenso di Enrico Cuccia, di potere espugnare il fortino di Montedison ed entrare, quindi, a pieno diritto nell’Olimpo di quelli che contavano, al di là dei conti in banca. 

Una corsa sempre verso la vetta, con qualche sguardo quasi annoiato al cammino percorso, perché Gardini era sempre Gardini, che non si poneva limiti. Di lui Victor Uckmar, consigliere di Montedison, disse, ricordandolo, che ‘’come uomo aveva sei marce. Il guaio è che troppo spesso teneva la sesta anche in curva’’.  

Ma, come Icaro, Gardini viaggiava troppo veloce verso il sole e le sue ali, lentamente, cominciarono a sciogliersi, lasciandolo nudo davanti alla giustizia, soprattutto quando chi lo aveva preceduto ai vertici di Montedison, una volta al cospetto dei pm della Procura di Milano, aveva cominciato a parlare. E dopo le prime timide ammissioni, di fronte alle evidenze, le parole corsero devastanti, spiegando come il gruppo Ferruzzi si era lanciato nella chimica e come, per farlo, aveva dovuto scendere a compromessi con quella classe politica che lui, Gardini, disprezzava, e non solo perché essa si presentava alla cassa. 

Chissà se gli passò per la testa di spiegare al mondo il perché, quel venerdì di un caldo luglio di trent’anni fa, decise di farla finita. Un colpo, esploso con una Walther PPK, mise fine a tutto, forse spinto al gesto dalla morte di Gabriele Cagliari, presidente di Eni, che, in uno dei bagni di San Vittore, si era suicidato tre giorni prima, dopo essersi infilata la testa in una busta di plastica, sigillata al collo con un laccio da scarpe.   

Cagliari scrisse, in una lettera inviata alla famiglia: ‘’siamo cani in un canile dal quale ogni Procuratore può prelevarci per fare la propria esercitazione e dimostrare che è più bravo o più severo di quello che aveva fatto un’analoga esercitazione alcuni giorni prima o alcune ore prima. (...) Stanno distruggendo le basi di fondo e la stessa cultura del diritto, stanno percorrendo irrevocabilmente la strada che porta al loro Stato autoritario, al loro regime della totale asocialità. Io non ci voglio essere’’. 

Una prova che Raul Gardini non volle affrontare, preferendo la morte alla vergogna, non per quello che aveva fatto, per avere foraggiato un sistema corrotto e corruttore, ma perché qualcuno gli chiedeva di rispondere delle sue azioni. L’unica cosa che forse gli faceva realmente paura.

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Italia Informa n° 1 - Gennaio/Febbraio 2024
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