La possibilità di una tregua duratura nella Striscia di Gaza resta sospesa tra conferme, smentite e una diplomazia estenuata. Israele ha formalmente accettato l’ultima proposta di cessate il fuoco avanzata dall’inviato americano Brett Witkoff, che prevede una tregua di 60 giorni accompagnata da un progressivo rilascio degli ostaggi e l’aumento degli aiuti umanitari nella regione. Ma Hamas, pur non chiudendo del tutto alla proposta, ha dichiarato di voler “continuare l'esame” dei termini, smentendo così le prime indiscrezioni secondo cui il movimento palestinese avrebbe dato luce verde all’accordo.
Tregua appesa a un filo: Israele dice sì, Hamas frena, Mosca gioca a poker
L’annuncio di Al Arabiya, che aveva dato notizia dell’approvazione da parte di Hamas, ha alimentato per qualche ora un clima di ottimismo, ma è stato prontamente smentito da fonti ufficiali del movimento. “Non siamo ancora a quel punto”, ha dichiarato una fonte vicina alla leadership politica di Hamas a Doha. La sensazione è che i mediatori arabi stiano cercando di forzare una svolta, alimentando indiscrezioni che possano spingere le parti a dichiarazioni pubbliche. In questo contesto si muove anche l’Egitto, da mesi impegnato in colloqui riservati con entrambe le parti, ma sempre più preoccupato dal rischio che una nuova escalation possa infiammare l’intero quadrante medio-orientale.
La partita geopolitica di Mosca e Kiev
Mentre sul campo le armi non tacciono, sul piano diplomatico si affaccia un altro attore centrale: la Russia. Mosca ha formalmente invitato Kiev a un incontro bilaterale da tenersi il 2 giugno a Istanbul, rilanciando l’ipotesi di un negoziato diretto con l’Ucraina al di fuori dei canali multilaterali. Ma dietro l’apertura si nasconde una strategia opaca: il Cremlino ha dichiarato che non intende consegnare in anticipo il memorandum contenente i termini dell’incontro. “Una scelta che lascia intendere la presenza di clausole inaccettabili”, secondo fonti governative ucraine, che leggono nella riservatezza russa il timore di uno smascheramento anticipato delle vere intenzioni.
Le incognite di una tregua instabile
Il piano proposto dagli Stati Uniti prevede tre fasi: cessate il fuoco immediato, scambio di ostaggi e prigionieri, ricostruzione e monitoraggio internazionale. Ma i nodi restano molti. Hamas chiede garanzie sulla fine dell’occupazione e su un corridoio umanitario stabile, mentre Israele insiste sulla smilitarizzazione dell’area e sul controllo degli aiuti. Anche l’eventuale ingresso di osservatori esterni, dall’ONU a paesi terzi come Qatar e Turchia, è oggetto di controversie. Le famiglie degli ostaggi israeliani, intanto, continuano a premere sul governo affinché non si perda l’occasione di riportare a casa i propri cari, mentre a Gaza l’ennesima ondata di bombardamenti rischia di rendere irrecuperabile il già fragile tessuto civile.
L’Occidente osserva, ma è diviso
Washington appare determinata a ottenere un risultato simbolico prima dell’estate, ma gli alleati europei non sono uniti. La Francia spinge per una soluzione multilaterale, la Germania è più cauta, l’Italia si limita a dichiarazioni di principio. Sullo sfondo si muove l’ombra dell’Iran, che secondo fonti israeliane starebbe finanziando il riarmo di milizie collegate ad Hamas nei territori limitrofi. La partita è aperta, ma il margine d’azione per una tregua reale si restringe ogni giorno di più, tra pressioni internazionali, propaganda incrociata e una crescente sfiducia tra i protagonisti.