Il 7 luglio Benjamin Netanyahu si recherà per la terza volta quest’anno a Washington, ospite del suo alleato storico Donald Trump, tornato alla presidenza con un'agenda che rimette al centro l’“America First” e l’appoggio incondizionato a Israele. Dietro le porte della Casa Bianca si consumerà l’ennesimo vertice tra due leader che condividono più di una visione muscolare della politica: entrambi indeboliti sul fronte interno, ma determinati a tenere in pugno l’agenda geopolitica mediorientale. Il viaggio del premier israeliano avviene nel pieno dell’ennesima offensiva su Gaza, mentre i missili israeliani colpiscono un Internet café nella Striscia, uccidendo 39 civili. Le immagini rimbalzano sui media internazionali, ma nulla sembra scalfire la sintonia strategica tra Tel Aviv e Washington.
Trump e Netanyahu, l’asse del disordine si rinsalda
Trump, già nel primo mandato, aveva disarticolato l’equilibrio regionale riconoscendo Gerusalemme come capitale d’Israele e favorendo gli Accordi di Abramo. Ora, con la sua nuova amministrazione, rilancia il copione: amicizia cieca con Netanyahu, sostegno militare esplicito e dichiarazioni unilaterali in nome della pace. Ma la realtà è fatta di 39 corpi senza vita a Gaza City, stretti tra le macerie. L’operazione militare continua con una brutalità che rende ogni ipotesi di tregua una finzione diplomatica. Trump dice di “sperare in una tregua entro una settimana”, ma intanto la macchina bellica non rallenta. E mentre le cancellerie europee balbettano, il silenzio arabo diventa assordante.
Le sabbie mobili di Gaza e l’impunità israeliana
Netanyahu si presenta alla Casa Bianca non solo per rinsaldare un’amicizia, ma per cercare copertura politica e militare. A Tel Aviv, la pressione interna cresce. I riservisti protestano, la società civile è spaccata, eppure la coalizione di destra resta salda, unita dalla paura e dall’ossessione per la “sicurezza”. L’attacco all’Internet café — ufficialmente “obiettivo militare” — rientra nella logica della deterrenza estrema: colpire ovunque, colpire chiunque. Non c’è proporzione né filtro. E qui sta il punto: l’alleanza tra Trump e Netanyahu non è solo strategica, è ideologica. Entrambi concepiscono la forza come unica forma di legittimità. E Gaza, ancora una volta, diventa il laboratorio del disordine.
Il ritorno di Assad e la Siria come moneta di scambio
Come se non bastasse, Trump ha firmato un ordine esecutivo che revoca parte delle sanzioni contro la Siria di Bashar al-Assad, in nome di una presunta “emergenza umanitaria”. Ma la realtà è un’altra: il presidente americano sta cercando di riaprire un canale con Damasco e con Mosca, scavalcando l’Onu e aggirando l’Unione Europea, come già aveva fatto con la Turchia di Erdoğan e con l’Arabia Saudita. È la sua geopolitica dei colpi di teatro: togliere sanzioni qui per guadagnare influenza là, mentre la popolazione siriana continua a vivere in un Paese devastato, senza un futuro e senza una vera ricostruzione. Il perdono a Assad, oggi, è il prezzo che Trump è disposto a pagare per ridisegnare il mosaico del Levante a sua immagine.
Un ordine mondiale senza regole
Il nuovo Medio Oriente di Trump non è quello degli accordi o della diplomazia multilaterale, ma quello delle sfere di influenza. Netanyahu diventa il gendarme di un’intera regione, con licenza di colpire, mentre l’America guarda, approva e fornisce armamenti. Gli altri — Europa, Paesi arabi, Nazioni Unite — fanno da spettatori o da comparse. La revoca delle sanzioni alla Siria, l’attacco a Gaza, le parole sulla tregua: ogni gesto è parte di una strategia che non mira alla pace, ma a ridisegnare i rapporti di forza. E in questo schema, i civili palestinesi diventano sacrificabili, la Siria una pedina, e la Casa Bianca il centro decisionale di un disordine che chiama “nuovo equilibrio”.