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Warhol, l’ombra colorata prima della Pop Art. A Biella, tra tessuti e sogni d’artista

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Warhol, l’ombra colorata prima della Pop Art. A Biella, tra tessuti e sogni d’artista

C’è un Warhol che non conosciamo. Un Warhol che non è ancora Pop, che non ha ancora disegnato la banana dei Velvet Underground né la lattina della Campbell’s Soup. Un Warhol che non vive ancora nella Factory ma in piccoli atelier newyorkesi, piegato sui tessuti, sulle scarpe, sugli schizzi a matita. È questo l’Andy che Biella – città di fili e telai, capitale silenziosa del tessile – riporta alla luce con la mostra “Andy Warhol. Pop Art & Textiles”, ospitata tra Palazzo Ferrero e Palazzo Gromo Losa, due luoghi che raccontano, anche nella loro architettura, il dialogo tra industria e arte.

Warhol, l’ombra colorata prima della Pop Art. A Biella, tra tessuti e sogni d’artista

Nato nel 1928 a Pittsburgh da una famiglia di immigrati slovacchi, Andrew Warhola arriva a New York nel 1949 con una valigia e un desiderio feroce di riscatto. Disegna per Vogue, Harper’s Bazaar, Glamour, illustrando copertine di dischi e pubblicità. È un mondo lucido e spietato, quello della moda americana del dopoguerra, dove i volti sono perfetti e i colori non sbagliano mai. In quel contesto, Warhol osserva, assimila, si reinventa. È un pubblicitario che già pensa da artista.

C’è un errore tipografico – un refuso su una rivista – che cambia il suo destino: Warhola diventa Warhol. Da lì inizia la leggenda, anche se lui ancora non lo sa.

Tra scarpe, farfalle e clown: la Pop Art che non c’era ancora

La mostra curata da Francesca Biagioli di Beside Studio, in collaborazione con il Fashion & Textile Museum di Londra, espone per la prima volta in Italia abiti, tessuti e disegni del Warhol pre-Pop. Pezzi che, fino a ieri, erano stati visti solo a Londra ed Edimburgo.

Qui, tra stoffe di seta e lino, compaiono farfalle, clown, cavalli circensi, gatti, bottiglie, frutti e gelati ripetuti in serie, come se già provasse la grammatica della moltiplicazione visiva che farà la sua fortuna. C’è già l’intuizione seriale, il gioco dell’ironia e della ripetizione, la voglia di trasformare il banale in icona.

Nel 1954 Warhol inizia a disegnare tessuti per la Stehli Silks Corporation, mentre Manhattan diventa la capitale della moda globale. È un periodo di collaborazioni artistiche e commerciali: Picasso, Miró, Dalí creano pattern per le aziende tessili; Warhol entra in quella rete come un giovane talento affamato.

La linea tremante della libertà
Uno degli elementi più affascinanti di questa fase è la cosiddetta “blotted line”, una linea irregolare ottenuta tamponando l’inchiostro fresco con carta assorbente. Un gesto semplice, eppure pieno di poesia: il contorno non è mai netto, ma vibrante, fragile, umano. È la firma inconsapevole di un autore che farà dell’imperfezione un’arte.

“Warhol era un artista che osservava il mondo con la pazienza di chi deve ancora imparare a gridare”
, spiega Biagioli. “Nei suoi tessuti si intravedono già i temi della ripetizione, del consumo e della bellezza effimera. Ma anche una dolcezza che dopo sparirà, inghiottita dal clamore della Pop Art”.

Dalla moda alla leggenda
Attraversando la strada, a Palazzo Gromo Losa, si entra nel Warhol che tutti conoscono: 150 opere provenienti da collezioni private ricostruiscono l’universo della Factory, le serigrafie di Marilyn, Mao, i Flowers, Mickey Mouse e le lattine Campbell’s. Ma anche le copertine di dischi, con quella banana che diventa manifesto del rock o la cerniera dei jeans dei Rolling Stones, simbolo di un’epoca che scopriva la libertà e la merce.

L’allestimento curato da Alberto Rossetti e Vincenzo Sanfo mette in dialogo i due Warhol: l’artigiano e il profeta, il disegnatore di tessuti e il costruttore di icone. È come se il visitatore attraversasse un ponte invisibile tra due decenni: gli anni Cinquanta del silenzio e i Sessanta del rumore.

L’Italia nel destino di Warhol

Non poteva mancare una sezione dedicata al rapporto tra Warhol e l’Italia, mediato dai galleristi e collezionisti che lo hanno accolto e amato, a partire da Lucio Amelio. Dopo il terremoto dell’Irpinia del 1980, Amelio lo invita a partecipare al progetto “Terrae Motus”, e Warhol realizza il celebre trittico con la prima pagina de Il Mattino e quel titolo urlato: FATE PRESTO. È l’urlo del dolore e della stampa, il linguaggio della tragedia tradotto nella grammatica della Pop Art.

Il cerchio che si chiude
C’è una malinconia sottile in questa mostra biellese. Guardando i tessuti leggeri con le farfalle e i fiori, si ha la sensazione di vedere Warhol prima che diventasse Warhol, quando ancora la sua arte non era un marchio, ma un modo per sopravvivere. È un Warhol più umano, meno scintillante, più vicino alla stoffa che alla serigrafia.

In fondo, anche la Pop Art nasce da un taglio di forbici, da una cucitura, da un colore steso su un tessuto. Biella, con la sua tradizione industriale e la sua discrezione piemontese, gli rende omaggio nel modo più autentico: restituendogli la sua umiltà artigiana.

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