Non è solo una storia di segreti: è un manuale di potere. Dai cablogrammi su Iraq e “affari politico-militari” all’aria del 2025, l’Italia torna nella narrazione americana come alleato “speciale” e, all’occorrenza, leva per spostare l’Europa.
Il punto di partenza: un’Italia “eccellente” per gli affari di Washington
Dentro l’archivio di WikiLeaks ci sono frasi che, lette oggi, suonano come un promemoria: quando gli Stati Uniti vogliono risultati rapidi in Europa, Roma è considerata una scorciatoia. In un cablogramma del 12 maggio 2003, in piena stagione Iraq, l’ambasciata Usa definisce l’Italia “an excellent place to do our political-military business”, elogiando apparati e “professionals” capaci di far girare l’ingranaggio anche in un contesto domestico ostile alla guerra.
È un passaggio chiave perché non parla di “amicizia” in astratto: descrive un ecosistema istituzionale dove, con pazienza e contatti giusti, Washington ritiene possibile ottenere ciò che serve—basi, cooperazione, posture, messaggi—senza aspettare che l’intera Europa marci compatta.
Iraq 2003: la frattura europea come strategia, non come incidente
Nel 2003 l’Europa non discute soltanto “se” fare la guerra: discute chi decide e con quale legittimità. La famosa contrapposizione tra “vecchia” e “nuova” Europa diventa un acceleratore: un modo per isolare gli scettici e costruire consenso altrove.
La dinamica è documentata su più livelli. Da un lato, la retorica pubblica (il marchio “old Europe” attribuito al fronte franco-tedesco) che legittima un’Europa a due velocità. Dall’altro, la micro-politica: pressioni, incentivi, coalizioni parallele e lettere di sostegno che spaccano il fronte europeo mentre l’Unione sta cambiando pelle con l’allargamento.
Un’analisi storica recente ricostruisce come Washington abbia deliberatamente frammentato l’Europa per arrivare all’invasione dell’Iraq “a ogni costo”, valorizzando la disponibilità di Paesi più allineati e trasformando la divisione in leva diplomatica duratura.
“Special relationship”: cosa significa davvero nei cablogrammi
Il lessico “speciale” è seducente, ma i cabli lo rendono concreto: speciale è ciò che funziona. Nel 2003, lo stesso cablogramma su Roma racconta che il governo Berlusconi ha portato un Paese “largamente contrario alla guerra” il più vicino possibile—politicamente—alla soglia della belligeranza, pur senza inviare truppe nella prima fase. È un modo elegante per dire: la resistenza dell’opinione pubblica esiste, ma non blocca tutto.
E quando serve, la pressione sale. Un altro cablogramma (2009) descrive come, a seguito di “intense diplomatic pressure” culminate in una richiesta di Bush a Berlusconi, l’Italia accetti di inviare Carabinieri per addestramento in Afghanistan e di rimuovere limitazioni geografiche operative. Tradotto: il rapporto non è solo cooperazione; è anche negoziazione asimmetrica.
Roma “ponte” con l’Ue: quando l’Italia fa da cerniera (e quando diventa leva)
L’Italia ha spesso raccontato se stessa come ponte tra Washington e Bruxelles. E, in parte, lo è. Anche qui i documenti aiutano: un cablo del 2005 parla dell’Italia “in prima linea” nel rilancio della cooperazione transatlantica, richiamando il ruolo della presidenza italiana dell’Ue nel 2003 dopo le spaccature sull’Iraq.
Il punto, però, è l’ambivalenza: la stessa funzione di cerniera può trasformarsi in una leva se l’obiettivo americano non è ricomporre, ma selezionare interlocutori europei “più maneggevoli”. In altre parole, l’Italia può essere partner utile a far dialogare due sponde… oppure il grimaldello per spostare equilibri dentro l’Unione.
Il 2025: Trump, la dottrina e il linguaggio della “resistenza” in Europa
Il tema torna con forza nel 2025, perché a Washington la priorità non è più (solo) convincere Bruxelles: è ridisegnare il rapporto di forze con l’Europa. A dicembre, un approfondimento internazionale ha evidenziato come la nuova strategia di sicurezza americana contenga una sezione dedicata all’Europa che invita gli Usa a “coltivare resistenza” nel continente e a spingere alleati politici europei verso un “revival” anti-regolatorio. Il messaggio è esplicito: meno Bruxelles che “soffoca”, più capitali nazionali che scelgono.
In questa cornice, l’Italia conta per due motivi: peso politico (Paese fondatore, terza economia dell’eurozona) e posizionamento (può fare da mediatore oppure da eccezione “amica” che apre varchi). E il dibattito europeo lo percepisce: ex diplomatici e analisti citati nel pezzo parlano apertamente di rischio polarizzazione e di incentivo esterno a spaccare l’Unione usando migrazione, identità e deregulation come ariete.
Non solo geopolitica: energia, regole e “barriere” (la guerra silenziosa delle norme)
La partita non si gioca soltanto con truppe e summit: si gioca sulle regole. Un esempio attualissimo riguarda l’energia. Un’agenzia internazionale ha rivelato una richiesta formale degli Stati Uniti all’Ue: esenzioni per il gas americano dalla normativa europea sulle emissioni di metano (con un orizzonte fino al 2035), considerata da Washington una barriera commerciale.
Qui il meccanismo è perfetto per chi vuole dividere: alcuni Paesi europei hanno bisogno di Gnl, altri difendono la linea regolatoria e climatica; in mezzo, capitali che cercano corsie preferenziali. Il risultato è che ogni dossier tecnico diventa un test di unità europea—e un’occasione per trattare “bilateralmente” con chi è più disposto.
La foto d’insieme: cosa insegnano i cabli (e cosa dovremmo chiederci oggi)
Se mettiamo in fila i pezzi, la lezione è spietatamente semplice:
- Washington ragiona per risultati: se l’Europa è lenta, si cercano capitali più rapide.
- L’Italia è attraente quando offre apparati capaci, accesso operativo e margini politici per dire “sì” anche con consenso interno fragile.
- La divisione europea è una leva ricorrente: nel 2003 per l’Iraq; nel 2025 su regole, identità, difesa e tecnologia.
- La retorica del “ponte” è ambigua: può essere mediazione, oppure “corsia preferenziale” che indebolisce la linea comune Ue.
La domanda, quindi, non è se esista un rapporto speciale: la domanda è chi lo paga e con quale contropartita. Perché ogni “eccezione nazionale” che funziona nel breve può diventare, nel medio, il modo più efficace per sfilacciare una politica europea comune.