L’Albania ha scelto ancora Edi Rama. Secondo i primi exit poll, il Partito socialista ha ottenuto il 51,8% dei voti nelle elezioni legislative, conquistando una solida maggioranza parlamentare con 79 seggi su 140. Per il premier uscente, al potere dal 2013, si apre così la strada verso un quarto mandato consecutivo: un traguardo che, nei Balcani, pochi leader hanno raggiunto senza che ciò comportasse anche derive autoritarie o crisi sistemiche. Rama, invece, si presenta come il garante di una stabilità faticosamente costruita, ma anche come l’uomo forte che ha saputo accreditare Tirana come partner affidabile sia con Bruxelles sia con Ankara.
L'Albania sceglie la continuità: Rama verso il quarto mandato
Dietro la conferma, però, si nasconde una realtà più ambigua. Il dominio socialista sul Parlamento avviene in un contesto di opposizioni frammentate, di sistema elettorale discutibile, e di una stampa sempre più polarizzata. Rama si presenta come il volto moderno dell’Albania europeista, ma il suo potere si fonda su un controllo capillare del territorio, una struttura partitica che penetra ogni livello amministrativo, e su un uso disinvolto della comunicazione politica. La vittoria, pur netta, non scioglie i nodi di fondo: corruzione diffusa, giustizia lenta, e un’emigrazione giovanile che continua a svuotare il Paese.
Un voto che boccia l’opposizione nazionalista di Berisha
Sul versante opposto, il centrodestra guidato da Sali Berisha, ex premier e figura storica della transizione post-comunista, ha ottenuto appena il 38% dei voti. La coalizione che aveva provato a rilanciare con la sigla “Partito Democratico - Alleanza per una Grande Albania” si è fermata a 54 seggi, e già si profilano le prime tensioni interne. Berisha aveva puntato tutto su una retorica nazionalista e identitaria, evocando la “Grande Albania” come progetto geopolitico, ma l’elettorato urbano e giovanile ha premiato invece la promessa, seppur fragile, di stabilità e dialogo con l’Europa. È una sconfitta non solo numerica, ma simbolica: l’elettorato albanese, pur disilluso, non ha ceduto alle sirene del populismo revanscista.
Questa bocciatura segna forse la fine politica di Berisha, già gravato da sanzioni americane per presunta corruzione e sottoposto a un’inchiesta interna. Ma pone anche un problema all’opposizione più giovane: come costruire un’alternativa credibile a Rama senza rifugiarsi nei fantasmi del passato o nelle utopie di sovranismo balcanico?
Europa sullo sfondo, ma la strada resta lunga
Rama ha costruito il suo successo anche grazie alla narrazione dell’integrazione europea. L’Albania ha ottenuto lo status di paese candidato all’adesione all’Unione e ha aperto i primi capitoli negoziali. Tuttavia, la distanza tra le riforme annunciate e quelle reali resta ampia. La giustizia è sotto osservazione, le mafie continuano ad avere un peso cruciale nell’economia, e le disuguaglianze si sono aggravate, soprattutto tra le zone urbane e le aree rurali. Il voto del 2025 non premia tanto un modello di sviluppo, quanto la capacità di Rama di occupare lo spazio politico rimasto vuoto e di controllare il racconto nazionale.
Le cancellerie europee, pur tra mille cautele, guardano con favore alla sua rielezione. A Bruxelles, Rama è percepito come un interlocutore affidabile, pragmatico, capace di contenere le spinte migratorie e di garantire una linea filo-occidentale in un’area attraversata da influenze russe, turche e cinesi. Ma proprio questo ruolo di cerniera rischia di diventare una trappola: Tirana dipende sempre più dagli equilibri esterni, mentre all’interno le fratture sociali si ampliano.
Una stabilità fragile e personalistica
Rama ha vinto ancora, ma la sua leadership è diventata un’istituzione a sé, sempre più personalistica. Il potere si concentra nelle sue mani, i ministri sono figure deboli, spesso intercambiabili, e il partito socialista si è trasformato in un apparato amministrativo più che in un luogo di elaborazione politica. Il rischio, ora, è quello dell’autosufficienza: senza opposizione credibile e senza limiti interni, Rama potrebbe trasformare la sua longevità in una forma di dominio permanente, svuotando il fragile pluralismo democratico albanese.
La sfida, per lui, è governare non solo per mantenere il potere, ma per costruire istituzioni solide, affidabili, indipendenti. Per ora, però, il consenso si regge su un equilibrio precario: tra promesse europee, controllo mediatico e un’opposizione che non sa più parlare al Paese.