Ultime assemblee oggi, poi da domani scatterà lo sciopero nazionale di 24 ore in tutti gli stabilimenti del gruppo Acciaierie d’Italia.
La mobilitazione, indetta da Fim, Fiom e Uilm, coinvolgerà Taranto, Genova, Novi Ligure e Racconigi, con presìdi e cortei che riporteranno al centro una vertenza che da oltre tredici anni condiziona la politica industriale italiana.
Ex Ilva, la crisi che costa all’Italia: 13 miliardi in 13 anni
Ma dietro lo scontro sindacale e il pressing sul governo si nasconde un tema più ampio: quanto è costata la crisi dell’ex Ilva al sistema Paese – e quanto ancora pesa sull’economia reale e sulla competitività della filiera siderurgica.
Un bilancio economico pesante: 13 miliardi di costi diretti e indiretti
Dal 2012, anno del sequestro preventivo, il gruppo ha assorbito oltre 13 miliardi di euro in costi diretti e indiretti, secondo stime di analisti e fonti istituzionali.
Circa 4,5 miliardi sono imputabili a risorse pubbliche: ammortizzatori sociali, misure ambientali, sostegni per la continuità operativa e coperture straordinarie.
Il resto – circa 8,5 miliardi – deriva da perdite produttive, contrazione del valore di filiera e minori investimenti.
Solo nel 2024 la produzione complessiva è scesa sotto i 3 milioni di tonnellate di acciaio, meno della metà della capacità installata del polo di Taranto. Il calo dei volumi, rispetto ai livelli pre-crisi, equivale a 2 miliardi di euro di ricavi mancati su base annua.
Un asset strategico da salvare
L’ex Ilva rimane un’infrastruttura industriale di interesse strategico nazionale, capace di incidere fino al 25% sulla capacità siderurgica complessiva del Paese.
Il tema, oggi, non è la dismissione ma il rilancio in chiave sostenibile, coerente con la strategia europea della decarbonizzazione e con la necessità di mantenere in Italia una produzione di acciaio autonoma e competitiva.
Il costo medio di produzione per tonnellata è stimato intorno ai 730-750 euro, ancora superiore ai livelli europei (circa 600 euro), a causa del peso energetico e dell’età degli impianti. Proprio qui si concentra il margine di miglioramento.
Il ruolo di Invitalia nella transizione
Nel 2021 l’ingresso di Invitalia nel capitale di Acciaierie d’Italia ha rappresentato una scelta strategica per garantire continuità industriale e difendere l’occupazione, in un momento di forte tensione finanziaria del gruppo.
L’agenzia pubblica ha investito oltre 700 milioni di euro, fungendo da leva di stabilità e da strumento per riattivare la pianificazione di lungo periodo.
L’obiettivo di Invitalia, confermano fonti del Mef, non è la gestione diretta dell’attività siderurgica, ma la costruzione di un quadro industriale e ambientale sostenibile, capace di attrarre nuovi partner e capitali privati.
L’approccio è quello del partenariato industriale evoluto: pubblico e privato come attori complementari nella transizione ecologica.
Ammortizzatori e indotto: il conto per lo Stato e il territorio
Dal 2013 a oggi, tra cassa integrazione ordinaria, straordinaria e in deroga, sono stati spesi circa 2,3 miliardi di euro, ai quali si aggiungono gli interventi per i lavoratori di Ilva in amministrazione straordinaria (oltre 1,4 miliardi).
Le misure di bonifica ambientale hanno assorbito finora circa 500 milioni, con progetti tuttora in corso.
A Taranto, ogni riduzione produttiva genera effetti a catena: l’indotto conta 6mila addetti, a cui si sommano i circa 10mila lavoratori diretti e quelli delle società in As. Ogni mese di inattività comporta un impatto stimato in oltre 100 milioni di euro tra salari, forniture e consumi mancati.
L’impatto sulla filiera nazionale
La crisi dell’ex Ilva ha inciso profondamente anche sulla bilancia commerciale dell’acciaio.
Negli ultimi cinque anni, la quota di acciaio importato è salita dal 35% al 52%, con un peggioramento del saldo estero pari a circa 1,8 miliardi di euro l’anno.
La perdita di capacità interna di produzione incide sulla competitività della manifattura italiana, in particolare nei settori automotive, costruzioni, cantieristica e meccanica di precisione.
Un rilancio stabile del polo siderurgico tarantino, spiegano gli analisti, consentirebbe di ridurre la dipendenza esterna e recuperare fino a 3 miliardi di valore aggiunto l’anno lungo l’intera catena della fornitura.
Sciopero e prospettive
Domani, a Taranto, lo sciopero sarà accompagnato da un corteo dalla fabbrica verso Palazzo di Città, con la partecipazione di delegazioni da tutti i siti italiani. Le sigle metalmeccaniche chiedono un “piano industriale condiviso, stabile e sostenibile”, che definisca chiaramente tempi e risorse per la transizione verde e per il mantenimento dei livelli occupazionali.
Secondo i sindacati, la cassa integrazione non può sostituire una strategia industriale, e il governo dovrebbe assumere un ruolo di indirizzo più esplicito.
Il bivio: rilanciare o arretrare
Oggi la scelta è tra investire nella riconversione o accettare un lento ridimensionamento.
Rilanciare costa: circa 3 miliardi di euro tra decarbonizzazione, nuova tecnologia elettrica e manutenzioni. Ma chiudere o ridurre drasticamente la capacità produttiva costerebbe oltre 4 miliardi in ammortizzatori e bonifiche, senza considerare l’impatto sociale e territoriale.
La conclusione è quasi unanime tra economisti e sindacati: non esiste una politica industriale senza siderurgia.
L’ex Ilva, con tutti i suoi costi, resta un’infrastruttura necessaria per la manifattura italiana. E Invitalia, nella sua funzione di regia pubblica, è oggi il perno su cui costruire una transizione che tenga insieme ambiente, occupazione e competitività.