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Greta Thunberg arrestata a Londra: protesta e legge antiterrorismo

- di: Bruno Legni
 
Greta Thunberg arrestata a Londra: protesta e legge antiterrorismo
Greta Thunberg arrestata a Londra: cartello e legge anti-terrorismo

Dalla protesta pro-Palestina al nodo “terrorismo”: quando basta una frase su un cartone per finire in cella (anche se solo per poche ore).

        A Londra, il confine tra protesta e reato si è fatto improvvisamente sottile: Greta Thunberg è stata fermata e portata in custodia durante un presidio pro-Palestina dopo aver mostrato un cartello di solidarietà verso i detenuti legati a Palestine Action, gruppo messo al bando nel Regno Unito. Dopo alcune ore è arrivato il rilascio su cauzione, ma l’indagine resta aperta.

Che cosa è successo nel cuore della City

Il raduno si è svolto nel centro di Londra, davanti a un palazzo associato ad Aspen Insurance, indicata dagli organizzatori come parte di una filiera di servizi che finirebbe per agevolare Elbit Systems UK, la divisione britannica del gruppo israeliano della difesa. L’azione aveva due livelli: da un lato la protesta “classica” con slogan e cartelli; dall’altro atti dimostrativi più duri, con vernice rossa spruzzata sulla facciata e ulteriori fermi per sospetto danneggiamento.

Thunberg, secondo le ricostruzioni, teneva un cartello con un messaggio che combinava sostegno ai detenuti e denuncia della guerra a Gaza. È stato quello, non un gesto fisico, ad attivare l’intervento: in base alla contestazione, l’esibizione pubblica di simboli o frasi ritenute di sostegno a un’organizzazione proscritta può integrare un reato.

Perché entra in gioco il Terrorism Act

Il punto chiave non è un’accusa di violenza, ma la proscrizione: quando un gruppo viene inserito nell’elenco delle organizzazioni proibite, la legge britannica prevede reati specifici per appartenenza, promozione e anche per alcune forme di supporto “espresso” (compresi cartelli o simboli, a seconda dei casi e del contesto). È una norma pensata per colpire l’ecosistema di sostegno alle organizzazioni terroristiche, ma oggi si trova al centro di un braccio di ferro politico e culturale.

La messa al bando di Palestine Action

Il governo ha motivato la proscrizione sostenendo che il gruppo avrebbe superato la soglia del “danno alla proprietà” e mostrato un’escalation nelle modalità di azione. La decisione è stata discussa in Parlamento e formalizzata con un provvedimento collegato alla normativa sulle organizzazioni proscritte. Da quel momento, anche iniziative di solidarietà possono diventare terreno scivoloso.

Lo sciopero della fame e il confronto con la storia: l’ombra di Bobby Sands

Il presidio londinese nasceva per sostenere otto detenuti legati a Palestine Action, in custodia cautelare e in attesa di processo, che hanno avviato uno sciopero della fame di lunghissima durata. I sostenitori parlano di condizioni processuali e carcerarie sproporzionate e denunciano il rischio concreto per la salute di alcuni dei partecipanti.

Il paragone storico, inevitabile nel dibattito pubblico britannico, è quello con lo sciopero della fame dei repubblicani nordirlandesi del 1981, culminato con la morte di Bobby Sands. Non è la stessa vicenda, né lo stesso contesto, ma la memoria collettiva rende esplosiva ogni discussione su “prigionieri”, “politica” e “diritti” dietro le sbarre.

Le critiche: “protesta non è terrorismo”

Il caso Thunberg si incastra in una contestazione più ampia. Amnesty International ha definito la proscrizione di Palestine Action un precedente pericoloso per la libertà di espressione e protesta, temendo un effetto raggelante su movimenti e cittadini comuni. Anche sul fronte internazionale sono arrivate prese di posizione: da Ginevra, l’ONU ha invitato Londra a non usare le norme antiterrorismo per colpire condotte che, pur illegali, non rientrerebbero nella nozione sostanziale di terrorismo.

In parallelo, la partita si gioca anche nelle aule di giustizia: associazioni per i diritti civili e figure legate al mondo legale hanno annunciato interventi e sostegni in procedimenti di revisione giudiziaria legati alla decisione di mettere al bando il gruppo.

La linea del governo e il nervo scoperto della libertà di protesta

Politicamente, il caso diventa un test: il Regno Unito ama raccontarsi come patria della libertà di parola e della protesta, ma negli ultimi anni – tra ordine pubblico, nuove leggi e lettura sempre più estensiva di alcune fattispecie – lo spazio si è ristretto. La scelta di usare la cornice antiterrorismo, in particolare, ha acceso l’idea che si stia equiparando l’attivismo radicale (soprattutto se pro-Palestina) alle minacce terroristiche tradizionali.

Che cosa rischia (e che cosa no) Thunberg

Il rilascio su cauzione non chiude la storia: significa che l’indagata torna libera, ma resta vincolata a condizioni e a una data di riferimento per eventuali sviluppi. Nella prassi britannica, i passaggi successivi dipendono dalla valutazione delle prove, dall’inquadramento del gesto (sostegno “attivo” o espressione politica) e dalla tenuta del caso in tribunale.

C’è un’ironia amara che i detrattori del provvedimento sottolineano: Thunberg non è nuova ai fermi, ma in passato la giustizia britannica ha anche bacchettato la polizia per arresti ritenuti non legittimi in contesti di protesta. Oggi il terreno è diverso, perché cambia la “cornice”: l’etichetta di organizzazione proscritta.

Il punto politico: un cartello può diventare una miccia

Se l’immagine di queste ore è quella di un foglio di cartone tenuto in mano, il vero tema è più grande: che cosa significa “supporto” quando lo Stato decide che un gruppo è fuori dal perimetro democratico? E quanto deve essere ampia – o stretta – la rete penale per evitare che l’azione contro pochi si trasformi in una intimidazione per molti?

Il caso Thunberg, comunque finisca, ha già prodotto un effetto: ha rimesso al centro la domanda più scomoda, quella che Londra si trova a ripetere ciclicamente. Quanto vale, davvero, la libertà di protesta quando la politica sceglie l’arsenale antiterrorismo?

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