La riforma dell’esame di Maturità per il 2026 non è soltanto una questione di voti. Dietro l’apparente tecnicismo del bonus di tre punti c’è una visione economica precisa: premiare il capitale umano, riconoscere che la continuità e la competenza hanno un valore, anche quando non producono spettacolo.
Maturità 2026, il valore dei tre punti
Il Ministero dell’Istruzione e del Merito ha scelto di introdurre un meccanismo che consente agli studenti con un punteggio complessivo di almeno 90 su 100 di ottenere fino a tre punti aggiuntivi, assegnati dalla commissione. Una misura piccola nella forma ma grande nel significato: la scuola si sposta, almeno simbolicamente, dal paradigma della prestazione a quello dell’investimento.
Il capitale umano come infrastruttura
Nel linguaggio della politica economica, il capitale umano è ciò che tiene insieme produttività e futuro. L’Italia, che da decenni soffre di un deficit strutturale di competenze, prova qui a lanciare un segnale. Premiare la costanza e la serietà, non solo il talento o la brillantezza momentanea, significa tornare a considerare la formazione non un costo ma un bene collettivo.
Il bonus dei tre punti, in questa prospettiva, è una piccola detrazione simbolica: un modo per dire che il rendimento scolastico, come quello economico, non si misura solo nei picchi ma nella tenuta nel tempo. È un riconoscimento alla “produttività” dello studio quotidiano, alle ore invisibili che costruiscono competenze reali e spendibili.
La produttività del sapere
La scuola italiana – spesso accusata di essere scollegata dal mondo del lavoro – con questa riforma cerca di riannodare i fili con l’economia reale. L’esame non sarà più soltanto la somma di prove e verifiche, ma una valutazione integrata delle competenze, incluse quelle digitali, civiche e relazionali.
È, in fondo, la stessa logica che il sistema produttivo reclama da anni: valutare la qualità complessiva del percorso, non la performance isolata. Il bonus diventa un incentivo a formare studenti più solidi, più “occupabili”, capaci di reggere la complessità del mercato.
In un Paese dove la produttività del lavoro cresce di meno dell’1% annuo e dove il tasso di Neet resta tra i più alti d’Europa, la Maturità 2026 assume così anche il valore di una piccola manovra culturale: rimettere al centro il rendimento del sapere, non solo la retorica dell’esame.
Il segnale politico
C’è poi un messaggio implicito, tutto politico. Il governo vuole mostrare che il merito non è una parola astratta, ma una leva economica. L’idea di “premio” non è diversa da quella di un incentivo fiscale: si premia chi ha investito su di sé, chi ha tenuto la rotta, chi ha costruito valore attraverso lo studio.
È un messaggio che parla anche alle imprese, alle università, ai centri di ricerca: l’impegno ha un ritorno, non solo morale ma sistemico. Una società che riconosce la fatica del merito è una società che, nel lungo periodo, si rende più competitiva.
L’economia della fiducia
La riforma della Maturità, con i suoi tre punti, non muove il Pil ma prova a rimettere in moto la fiducia, quella risorsa intangibile che sta alla base di ogni crescita. Fiducia nella scuola, nei giovani, nel fatto che lo sforzo non sia inutile.
In tempi di inflazione del disincanto, questo piccolo bonus funziona come una moneta simbolica: vale più per ciò che rappresenta che per ciò che misura.
Tre punti non cambiano un voto, ma possono cambiare la percezione del valore dello studio, trasformando l’ultimo esame della scuola in una prima lezione di economia reale: quella in cui il capitale più prezioso è ancora la conoscenza.