È morto Clark Olofsson, il bandito che ispirò la “sindrome di Stoccolma”
- di: Cristina Volpe Rinonapoli

Clark Olofsson, uno dei criminali più controversi e affascinanti del XX secolo, è morto all’età di 78 anni. Il suo nome è indissolubilmente legato a un evento che ha modificato per sempre il modo in cui si comprendono le dinamiche tra ostaggi e sequestratori: il rapimento avvenuto nel 1973 a Stoccolma, durante il quale Olofsson e il suo complice tennero prigionieri alcuni dipendenti di una banca per sei giorni, dando origine al fenomeno che verrà poi definito “sindrome di Stoccolma”. Una vicenda che trasformò il crimine in simbolo psicosociale e che, grazie all’analisi dello psichiatra svedese Nils Bejerot, ha ridefinito il lessico della psicologia dell’emergenza.
È morto Clark Olofsson, il bandito che ispirò la “sindrome di Stoccolma”
Durante il lungo assedio nella banca Kreditbanken di Stoccolma, nel cuore del distretto di Norrmalmstorg, accadde qualcosa che sconcertò le autorità e l’opinione pubblica: gli ostaggi iniziarono a prendere le difese dei sequestratori. Mostravano empatia, ne giustificavano le azioni, provavano addirittura affetto e si dichiaravano ostili nei confronti della polizia. Era un cortocircuito emotivo che sfuggiva ai paradigmi classici dell’analisi criminologica. Nacque così la definizione di “sindrome di Stoccolma”, un termine destinato a entrare nel lessico globale per descrivere un paradosso psicologico in cui la vittima, pur sotto costrizione, si allea affettivamente con l’aggressore. Olofsson, per la sua parte nel sequestro, divenne icona e catalizzatore di un nuovo modo di concepire il trauma.
Un’eredità ambigua tra mito, psicologia e cultura pop
Clark Olofsson era già un noto rapinatore prima del sequestro di Stoccolma, ma fu quell’episodio a farne un personaggio globale. Dopo l’evento, il suo nome è apparso in studi accademici, romanzi, film e persino serie televisive. La sua figura ha incarnato la possibilità che il male non fosse solo una minaccia esterna, ma anche un elemento seduttivo, capace di insinuarsi nei meccanismi relazionali e affettivi più intimi. L’apice mediatico della teoria si ebbe l’anno successivo, nel 1974, quando l’ereditiera californiana Patty Hearst fu rapita da un gruppo rivoluzionario e aderì alla causa dei suoi sequestratori, partecipando a una rapina armata. Da quel momento, la sindrome di Stoccolma divenne un concetto interpretativo per casi in cui la distinzione tra vittima e carnefice si fa labile, se non reversibile.
Una figura complessa e il bisogno di decostruzione del carisma criminale
Olofsson ha vissuto gran parte della sua esistenza oscillando tra periodi di detenzione e libertà vigilata. Carismatico, manipolatore, intelligente, ha mantenuto per anni un rapporto ambiguo con i media, alternando richieste di riabilitazione a provocazioni pubbliche. È stato al centro di numerose biografie e documentari, ma sempre con il rischio di un’eccessiva mitizzazione. La sua morte impone oggi una riflessione più critica: fino a che punto la narrazione romantica del bandito ha contribuito a distorcere la percezione sociale del crimine? E in che modo la cultura mediatica ha usato la figura di Olofsson per spiegare dinamiche psicologiche complesse, talvolta semplificandole?
La sindrome di Stoccolma oggi, tra psichiatria e sociologia
La sindrome di Stoccolma, nonostante sia stata utilizzata largamente nei media, resta una diagnosi controversa nel mondo clinico. Molti studiosi ne contestano la scientificità, ritenendola più una costruzione culturale che una categoria diagnostica verificabile. Tuttavia, il fenomeno emotivo descritto nel 1973 continua a offrire una lente utile per leggere situazioni di coercizione affettiva, non solo nei sequestri ma anche nei contesti familiari, lavorativi e di coppia. L’eredità di Olofsson, dunque, è più ampia di quanto appaia: ha aperto un varco nella comprensione della psicologia della vittima, rendendo visibili i legami inaspettati che si formano sotto la pressione del terrore. Con la sua scomparsa, si chiude una pagina di storia criminale e si apre forse una nuova stagione di riflessione, più matura, sul potere che il crimine esercita anche sul nostro immaginario.