Sfiducia, licenziamenti e nomine: il presidente esige che Bondi agisca contro Comey, Schiff e Letitia James.
Donald Trump ha alzato il livello dello scontro chiedendo all’Attorney General Pam Bondi di avviare senza indugi azioni penali contro tre bersagli ricorrenti del suo immaginario politico: l’ex direttore dell’FBI James Comey, il parlamentare democratico Adam Schiff e la procuratrice generale di New York Letitia James. In un post su Truth Social il presidente ha scritto: “Non possiamo più rimandare, in gioco c’è la nostra reputazione e la nostra credibilità. Mi hanno messo in stato di accusa due volte e incriminato cinque volte sul niente. Giustizia va fatta ora”, ha rivendicato Trump.
La sortita non arriva nel vuoto. Negli ultimi giorni la macchina federale è stata scossa da dimissioni improvvise, nomine-lampo e frizioni tra Washington e gli uffici dei procuratori: segnali di una strategia che punta a imprimere una svolta agli equilibri tra Casa Bianca e Dipartimento di Giustizia.
Le mosse recenti: nomine, dimissioni, pressioni
Tra le novità più rilevanti spicca la designazione di una figura vicina al presidente alla guida di un ufficio chiave della procura federale in Virginia, mossa interpretata da molti osservatori come il preludio a un riesame aggressivo dei dossier che toccano i nemici dichiarati del presidente.
La sequenza è stata rapida: uscita di scena del precedente procuratore, incarico ad interim a una dirigente interna e candidatura di un profilo gradito alla Casa Bianca. Un trittico che, letto in controluce, delinea la volontà di rimettere le mani sulle inchieste invise a Trump.
Le accuse e le difese
Nel mirino, oltre a Comey e Schiff, c’è Letitia James, protagonista di battaglie legali contro il presidente. I sostenitori di Trump sostengono che vi siano gli estremi per contestazioni formali; dall’altra parte, i legali della procuratrice parlano di accuse strumentali e prive di sostanza. Il caso è diventato il terreno su cui misurare la tenuta dell’indipendenza giudiziaria.
Per Comey e Schiff, Trump spinge per procedimenti che – sostengono i suoi critici – mancano di un impianto probatorio solido. Il dibattito si sposta così dai tribunali all’arena politica, dove ogni mossa alimenta il racconto di una “giustizia a orologeria”.
Il punto politico e legale: confini, rischi, strategie
Il cuore del problema è la frontiera tra potere esecutivo e giustizia. Se l’esecutivo imprime la rotta alle procure, la promessa di rule of law rischia di trasformarsi in vendetta istituzionale. La pressione su Bondi, il ricorso a nomine mirate e l’insistenza sui tempi (“non possiamo più rimandare”, ha ripetuto il presidente) indicano che la motivazione non è solo legale, ma anche politica, con l’obiettivo di dettare l’agenda e di incassare risultati in tempi brevi.
Al netto della retorica, resta la condizione minima per ogni azione penale: prove verificabili e robuste. Senza questo requisito, ogni dossier rischia di implodere, lasciando dietro di sé un danno d’immagine per le istituzioni e alimentando una spirale di sfiducia pubblica.
Cosa succede adesso
Se le nuove nomine verranno confermate, è verosimile un riesame a tappeto dei fascicoli più sensibili. Nel frattempo, l’opposizione prepara contromosse parlamentari e ricorsi, mentre associazioni civiche e media monitorano il rispetto delle procedure. La posta in gioco è alta: il rapporto tra presidenza e giustizia federale potrebbe uscirne riscritto, nel bene o nel male.
Per il presidente, l’obiettivo è chiaro: trasformare una lunga guerra di carte bollate in una narrazione di forza. Per la democrazia americana, la sfida è opposta: preservare equilibri e garanzie che non appartengono a un leader, ma all’architettura costituzionale.