Il Private Equity italiano ha registrato un semestre da record: nei primi sei mesi del 2025 sono stati chiusi 249 deal, il numero più alto mai raggiunto in questo arco temporale. È il segnale di un mercato ancora vivace, nonostante l’incertezza che arriva dal fronte geopolitico e un orizzonte economico internazionale che resta fragile. Lo racconta la nuova edizione della Private Equity Survey, condotta da Deloitte Private in collaborazione con AIFI e l’Osservatorio PEM della LIUC Business School. Gli operatori, però, non cantano vittoria: la seconda metà dell’anno si annuncia più selettiva, con un atteggiamento cauto che riflette il peso delle tensioni globali, pur in un quadro complessivamente ottimista. Oltre l’86% degli investitori prevede uno scenario stabile o in miglioramento nei prossimi mesi, e quasi 9 su 10 scommettono su una tenuta – se non su una crescita – del numero complessivo di operazioni.
Il Private Equity italiano corre: mai così tanti deal nei primi sei mesi dell’anno
L’elemento che segna davvero il cambiamento è il crescente ruolo dell’intelligenza artificiale nella selezione delle aziende target: l’83% degli operatori la considera rilevante, per oltre il 20% è già un criterio chiave. Allo stesso tempo, i criteri ESG sono ormai parte integrante delle strategie di investimento: più del 60% degli operatori li applica nelle decisioni o nella gestione delle partecipate. È un doppio segnale di trasformazione culturale che spinge gli investitori a cercare aziende innovative, sostenibili e pronte a reggere urti futuri. Anche sul piano finanziario qualcosa si muove: pur restando il credito bancario la principale fonte per chiudere i deal, guadagna terreno il private credit, che sale al 28,6% delle preferenze, segno che cresce l’apertura verso strumenti alternativi, soprattutto per operazioni più snelle e meno esposte.
Manifattura prima scelta, ma si aprono spazi nuovi
Nel gioco delle preferenze settoriali, la manifattura resta in cima: il 23,8% degli operatori continua a puntare lì, con un segnale di rafforzamento. Subito dopo arriva il Food & Beverage, mentre il comparto Life Sciences & Healthcare – trainato anche dalle tecnologie biomedicali – guadagna consensi. Perde appeal invece l’ICT, che cala all’11,6%, mentre sorprende in positivo il Terziario, che risale nelle classifiche grazie alla spinta dei servizi avanzati. La mappa geografica degli investimenti resta sbilanciata: l’86% dei deal è nel Nord Italia, ma cresce l’attenzione sul Centro, salito al 7,1%, e si registra per la prima volta una fetta significativa (5,4%) di operazioni realizzate all’estero.
Operazioni più piccole, ma più mirate
Altro segnale del momento: si affermano i deal di taglio medio-piccolo. Le operazioni tra 16 e 30 milioni di euro salgono al 30,4%, mentre scende l’interesse per quelle da 31 a 50 milioni. Le operazioni sotto i 15 milioni valgono un quarto del totale. Un cambio di passo che riflette la volontà di puntare su aziende solide e flessibili, capaci di affrontare un contesto che, pur sostenuto da tassi favorevoli e fondi europei, resta complesso. In questo scenario, le acquisizioni di maggioranza tornano a dominare: l’83,9% degli operatori le preferisce, mentre crollano le operazioni di minoranza. I disinvestimenti crescono, ma lentamente: solo l’8,9% degli intervistati prevede un calo, mentre oltre metà ritiene che resteranno stabili. La stagione d’oro del Private Equity, almeno in Italia, sembra dunque ancora lontana dal tramonto. Ma sarà il secondo semestre a confermare se questo slancio sarà davvero sostenibile.