Il nuovo presidente degli Stati Uniti ha dichiarato con insistenza la propria volontà politica di introdurre dazi sulle importazioni di merci nel mercato statunitense. Questo approccio segnerebbe un passo deciso verso una sorta di “deglobalizzazione”.
Luci e ombre: il futuro della globalizzazione e il nuovo protezionismo Usa
Con questo termine si indica un ridimensionamento dell’integrazione mondiale dell’economia, accompagnato dall’obiettivo di renderla meno dipendente dalle catene di approvvigionamento internazionali, oggi sempre più instabili a causa delle tensioni geopolitiche globali. In particolare, gli Stati Uniti sembrano intenzionati a promuovere un modello di manifattura più autonomo, con il potenziale di influenzare radicalmente gli equilibri economici mondiali.
La “deglobalizzazione” potrebbe favorire la nascita, a livello globale, di un sistema multipolare, ridimensionando il modello di globalizzazione che ha dominato gli ultimi tre decenni, tra il 1990 e il 2020. Tale fenomeno, come evidenziato da un’analisi pubblicata da Limes (n. 12/2024), stimola una riflessione su alcuni dati significativi legati alla globalizzazione.
Ad esempio, il reddito totale lordo a livello mondiale è passato da 22.822 miliardi di dollari nel 1990 a ben 105.435 miliardi di dollari nel 2023, una crescita impressionante. L’import/export, che nel 1990 rappresentava il 38,1% del Pil globale, è arrivato al 58% nel 2023. Inoltre, gli investimenti diretti esteri, che costituivano l’1,1% del Pil mondiale nel 1990, hanno toccato un picco del 4,6% nel 2007, per poi calare all’1,7% nel 2022.
Questi dati dimostrano che la globalizzazione ha portato benefici tangibili, tra cui una significativa riduzione della povertà globale. Tuttavia, non mancano gli aspetti critici.
La globalizzazione è stata il principale strumento di diffusione del neoliberismo su scala mondiale, contribuendo a un marcato aumento delle disuguaglianze sociali. Questo modello economico ha reso vantaggiosa la delocalizzazione di stabilimenti produttivi in Paesi con bassi costi del lavoro, comprimendo i salari anche nelle economie più avanzate.
Un altro aspetto problematico è stato il ruolo del management internazionale, che ha spesso privilegiato gli interessi del capitale rispetto a quelli dei lavoratori o di altri “stakeholders”. Il neoliberismo, infatti, ha orientato i processi di accumulazione di ricchezza in favore delle élite, trascurando i bisogni delle fasce più deboli della popolazione.
La politica economica del presidente statunitense si inserisce in questo contesto con la promessa di dazi alle importazioni, finalizzata a sviluppare catene del valore integrate nel sistema geopolitico americano. Questo approccio sembra preludere a un futuro caratterizzato da relazioni commerciali “deglobalizzate” per l’Occidente, con la creazione di mini-sistemi geopolitici regionali. In questi contesti, le economie si integrerebbero maggiormente nella ricerca e sviluppo (R&S) e nella gestione delle catene di approvvigionamento per le nuove tecnologie.
Il possibile impatto sulla scena globale
Un cambio di rotta così radicale avrebbe profonde implicazioni. Si prevede uno scenario internazionale caratterizzato da grande incertezza, all’interno del quale l’Unione Europea dovrà ripensare le proprie strategie. In particolare, la possibile riduzione dell’impegno statunitense negli affari europei mette in luce la fragilità militare dell’UE, che finora ha delegato la propria difesa agli Stati Uniti. Affrontare questa sfida richiederà risorse ingenti: dotarsi di un sistema di difesa efficiente comporterebbe un aumento significativo della spesa pubblica, con il rischio di mettere in crisi i bilanci già fragili di molti Paesi europei. Sul piano economico, l’eventuale applicazione di dazi da parte degli Stati Uniti alle merci europee renderebbe necessaria una revisione profonda della politica industriale e commerciale dell’UE.
Questa situazione richiede un deciso salto di qualità nelle politiche europee. Un’Europa incapace di adattarsi a un mondo più frammentato rischierebbe un declino inesorabile. Per evitare questo scenario, l’UE dovrà abbandonare un approccio frammentato e puntare su una maggiore coesione, investendo su innovazione, sostenibilità e integrazione economica tra i suoi membri.
Il ruolo delle catene di approvvigionamento
Un aspetto cruciale del nuovo scenario globale riguarda la gestione delle catene di approvvigionamento. Negli ultimi anni, le crisi internazionali, come la pandemia di Covid-19 e la guerra in Ucraina, hanno messo in evidenza la vulnerabilità di sistemi produttivi troppo dipendenti da forniture estere. Le aziende multinazionali stanno rivalutando le loro strategie logistiche, cercando di diversificare le fonti di approvvigionamento e di localizzare parte della produzione più vicino ai mercati di consumo.
Questo processo, noto come “nearshoring”, potrebbe rappresentare una delle principali tendenze economiche del prossimo decennio. Tuttavia, la transizione verso modelli più resilienti comporta costi elevati, che potrebbero essere trasferiti sui consumatori, alimentando l’inflazione globale.
La risposta dell’Asia e il ruolo della Cina
Mentre l’Occidente rivede le sue strategie economiche, l’Asia, e in particolare la Cina, potrebbero trarre vantaggio dalla situazione. Pechino sta accelerando i suoi investimenti in infrastrutture tecnologiche e nelle energie rinnovabili, puntando a consolidare la propria posizione come leader globale in settori strategici. La Belt and Road Initiative (BRI) continua a rappresentare uno strumento chiave per rafforzare le relazioni economiche e politiche con numerosi Paesi emergenti.
Tuttavia, anche la Cina deve fare i conti con sfide interne, come il rallentamento della crescita economica e le tensioni commerciali con gli Stati Uniti. La capacità di Pechino di adattarsi a un contesto globale frammentato sarà determinante per il suo futuro ruolo geopolitico.