La giornata referendaria dell’8 e 9 giugno si è chiusa con un dato che pesa come una sentenza: l’affluenza si è fermata al 30,58%. Nonostante l’ampiezza dei temi e il clamore mediatico, il corpo elettorale ha risposto con un’astensione di massa. Per la CGIL e il suo segretario Maurizio Landini, promotori del quesito sul lavoro, si tratta di un obiettivo mancato.
Referendum, flop dell'affluenza: la CGIL ammette la sconfitta
“Ripartiamo comunque dai 14 milioni che hanno votato”, ha detto cercando di salvare il senso di un’iniziativa che voleva spostare l’asse del dibattito politico su diritti e tutele. Ma la scarsa partecipazione rivela qualcosa di più profondo: una distanza ormai strutturale tra cittadini e strumenti della democrazia diretta.
Cinque quesiti, un solo no netto
Il responso delle urne ha consegnato una vittoria del sì in quattro quesiti su cinque, con percentuali che superano il 60%, segno che l’orientamento degli elettori favorevoli era chiaro. Fa eccezione il quesito sulla cittadinanza per i figli di immigrati, che ha registrato un 35% di voti contrari, il che sottolinea quanto il tema sia ancora divisivo nell’opinione pubblica. I dati, però, restano privi di conseguenze pratiche: non essendo stato raggiunto il quorum, nessuna delle proposte diventerà legge. Il referendum, di fatto, ha funzionato più da sondaggio d’opinione che da leva politica.
Una lettura trasversale e la guerra delle narrazioni
Nel giorno post-voto, è la narrazione politica a prendere il sopravvento sui numeri. Il presidente del Senato, Ignazio La Russa, ha dichiarato che “la campagna di odio ha schifato gli elettori”, accusando il campo progressista di aver polarizzato eccessivamente il confronto. Per La Russa, l’esperienza del “Campo largo” è definitivamente fallita. A stretto giro, la segretaria del Partito Democratico, Elly Schlein, ha ribattuto sottolineando come “abbiano votato più elettori di quelli che hanno scelto Meloni alle ultime elezioni politiche”, ribaltando la prospettiva: non un segno di debolezza della sinistra, ma una prova di vitalità democratica. La sua è una difesa della legittimità morale del referendum, più che della sua efficacia.
Fazzolari e la sponda governativa
Giovanbattista Fazzolari, sottosegretario alla presidenza del Consiglio e tra i principali stratega del governo, ha commentato che il flop referendario è un segnale di rafforzamento dell’esecutivo. Secondo questa lettura, la maggioranza avrebbe vinto per “diserzione dell’avversario”, una teoria non nuova nella politica italiana, che affida al non-voto la funzione di giudizio implicito. L’interpretazione, tuttavia, è rischiosa: legare troppo strettamente l’astensione all’approvazione popolare rischia di sottovalutare un malessere democratico trasversale.
Crisi della democrazia partecipata o crisi di rappresentanza?
Il dato più allarmante non è tanto il risultato politico immediato, quanto la fotografia di una democrazia in sofferenza. Il referendum dovrebbe rappresentare il massimo esercizio di partecipazione popolare, e invece continua a essere vissuto come un corpo estraneo, spesso complicato e non incisivo. La macchina organizzativa della consultazione, gli strumenti informativi a disposizione e il clima di sfiducia generale hanno contribuito a svuotare di senso lo strumento. Il risultato non è solo una sconfitta per i promotori, ma una cartina di tornasole sulla distanza tra i cittadini e la politica.