Task Force Italia, il Prof. Caselli: "Infrastrutture: commissari unici per sbloccare canieri e appalti"

- di: Redazione
 
Le proposte del Tavolo di lavoro di Task Force Italia (TFI) “Appalti, Investimenti (IT & Esteri) e Grandi opere’, snodo fondamentale per il rilancio del Paese, le novità introdotte dalla normativa e i vuoti ancora da colmare, la difesa e la valorizzazione del Made in Italy, il ruolo dell’Università. Ne parliamo con il Prof. Stefano Caselli, Prorettore per gli Affari Internazionali Università Bocconi.

Professor Caselli, lei fa parte dei 20 componenti del Comitato scientifico di Task Force Italia (TFI) ed è anche membro del Tavolo di lavoro TFI “Appalti, Investimenti (IT & Esteri) e Grandi opere’, tema cruciale per la ripartenza del Paese e, più in generale, per il rilancio della sua competitività. Quali sono le priorità fondamentali individuate dal Tavolo di lavoro?
Rilanciare il paese a tutto tondo, creare un ambiente favorevole alle imprese a all’attrazione dei capitali sono gli elementi chiave di sviluppo. Occorre allargare l’attenzione dalle norme per l’attrazione delle persone fisiche e dei cervelli a quelle per l’attrazione delle imprese straniere, con un meccanismo analogo in termini di riduzione dell’aliquota fiscale per un certo numero di anni. Subordinato alla crescita, agli investimenti e, soprattutto, alla creazione di occupazione. Che significano indotto, posti di lavoro, sviluppo di massa critica per creare in Italia un ambiente fertile per le grandi imprese. Milano, così come alcuni distretti italiani, in questo senso, devono giocare un ruolo fondamentale di hub per l’attrazione delle sedi di aziende estere. L’Olanda ha ben 13 aziende nella classifica Fortune 500, con un mix di aziende storiche olandesi e di aziende estere, attratte grazie soprattutto ad un uso potente della variabile fiscale. Il Regno Unito 21, per ragioni per certi versi analoghe a quelle dell’Olanda. Inoltre, una norma di questo tipo, potrebbe ridurre lo shopping che le aziende straniere fanno delle aziende italiane, in quanto funzionerebbe solo se l’azienda straniera si insedia in Italia. Ma l’attrazione di imprese passa attraverso la ricostruzione di un quadro che permetta di avere certezza del diritto e velocità di esecuzione dei progetti, già oggi in cantiere. Occorre, per sbloccare cantieri e appalti, ricorrere a figure di commissari unici con pieni poteri, capaci di dare execution e soprattutto di quantificare il costo –per una collettività, per una città, per i cittadini- delle perdite che si sviluppano a causa della mancata realizzazione e imputarle ai soggetti appaltatori e chi deve realizzare le opere. In una prospettiva futuribile, per lanciare come provocazione il ragionamento, è opportuno iniziare a riflettere sul concetto di danno erariale inteso come ritardo nell’esecuzione dei progetti. Cambierebbe completamente la prospettiva.

Focus sulle procedure di semplificazione. Che valutazione dà dei provvedimenti normativi introdotti, in primis il d.l. n. 76/2020? Quali i principali aspetti positivi e cosa resta ancora da fare su questo fronte?
L’attenzione di queste mesi si è concentrata su cosa dare alle imprese, per sopravvivere e per ripartire. Questo è un capitolo ancora aperto. Ma occorre interrogarsi anche su cosa togliere alle imprese. In termini di ostacoli, di regole e di burocrazia, che frenano e che rendono più difficile il fare impresa. Le classifiche più autorevoli su questa materia ci pongono su un piano spesso imbarazzante, a cui purtroppo ci siamo assuefatti. Una posizione simile per l’Italia è invece semplicemente inaccettabile e non può fare parte dell’immagine di un paese di grande dimensione. I dati non sono semplici indicatori qualitativi ma sono una combinazione di numeri, di fatti e di evidenze che costituiscono un vero e proprio capitale negativo che toglie valore e ci gioca contro. Il ranking “Doing Business” realizzato da World Bank mette l’Italia al 58° posto nel mondo, ben lontana dai principali paesi Europei: la Gran Bretagna all’ottavo posto, la Germania al ventiduesimo, la Spagna al trentesimo e la Francia al trentaduesimo. Se le prima posizioni (sul podio Nuova Zelanda, Singapore e Hong Kong) sembrano guidate da contesti di più piccola dimensione e caratterizzati da combinazioni uniche di localizzazione geografiche e scelte politiche, nei primi dieci posti troviamo comunque, oltre agli Stati Uniti, ben tre paesi del Nord Europa oltre alla Gran Bretagna. Ancora più importante è la straordinaria disponibilità di dati utilizzabili dietro questa classifica, che permette di andare a fondo sulle determinanti delle posizioni e quindi sui problemi principali che emergono. Che agiscono direttamente sulla liquidità e sui costi delle imprese. Ma soprattutto che mettono in luce come all’elevato carico fiscale sui profitti delle imprese (53%), dietro solo alla Francia (60%) e nei primi 20 al mondo, non corrisponde un contesto altrettanto favorevole alle imprese. Tre classifiche specifiche evidenziano proprio questi aspetti. Il numero di imposte a cui le imprese sono soggette (14, un numero che non ha simili) e il tempo dedicato alla gestione di tali imposte (238 ore, cioè 29,75 giornate lavorative) rispetto ad una media europea di 150 ore, sono elementi che obbligano le imprese a spostare l’attenzione dalla gestione del business a quella della burocrazia senza valore. Peggio ancora per i tempi di rimborso dell’IVA a credito: 62,5 mesi contro i 5 della Germania e i 16 della Spagna. O il tempo dedicato a far rispettare i contratti che non vengono rispettati: oltre 1000 giorni, ossia più del doppio di Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna, con un costo che si aggira nell’ordine del 27% del valore dei contratti stessi. Tanti fronti aperti e troppi divari che diventano divari di competitività. Che diventano zavorre in una situazione con quella che stiamo vivendo. Cosa si può fare di più è proprio un’azione esplicita di riduzione di questi parametri, di misurazione dei progressi e di loro comunicazione. Solo così l’Italia può diventare un luogo dove i progetti nascono e poi arrivano per davvero a conclusione.

L’Italia storicamente attira meno investimenti diretti esteri (Ide) rispetto alle maggiori economie europee. In estrema sintesi, quali le misure essenziali proposte dal Tavolo di lavoro per rilanciarli, valorizzando il Made in Italy di qualità ed evitando così i rischi di delocalizzazione?
Il profilo delle aziende di cui abbiamo bisogno, acquista un ruolo centrale nel dibattito: quale dimensione è necessaria? Sono interrogativi che ci permettono di affrontare un tema ad oggi del tutto irrisolto, che è quello di considerare l’elogio della piccola e media dimensione come un limite invalicabile. Che porta però a considerare la grande impresa come un elemento negativo, in quanto “geneticamente” diverso rispetto alle PMI. La discussione deve essere invece affrontata senza pregiudizi e soprattutto senza faziosità. L’esigenza del nostro paese di avere un numero più elevato di grandi imprese, capaci di competere alla pari con quelle dei paesi europei è un elemento cruciale dei prossimi anni. Il sostegno fiscale alle operazioni di M&A diventa essenziale per costruire la base del consolidamento. Anche qui la dimensione dell’incentivo fiscale gioca un ruolo decisivo, che può essere applicato sia ad una deducibilità accentuata dei disavanzi da fusione che, soprattutto, da una riduzione della tassazione complessiva IERS per un certo numero di anni successivi all’acquisizione, come “premio” alla crescita e subordinata sia alla crescita del fatturato ma anche alla crescita dell’occupazione. Collegare riduzione dell’IRES a crescita del numero di dipendenti a tempo indeterminato sarebbe un segnale senza precedenti.

Il Report del Tavolo di lavoro afferma che “la ripresa da una crisi di carattere pan-europeo come quella determinata da Covid-19 richiede - oltre ad investimenti di carattere strutturale e supporto alle imprese in generale - interventi mirati a trattenere gli investitori esteri già presenti nel Paese”. Può tracciare, nello specifico, i contorni di questi interventi necessari?
Il rilancio delle imprese passa attraverso un’azione decisa e capillare di capitalizzazione. Questa è la sfida più importante per il nostro paese, in quanto maggiore capitale di rischio permette sia di disporre di liquidità per la sopravvivenza immediata, ma soprattutto di avere la solidità adeguata per progettare il rilancio e la crescita, con rischi minori. Non solo, ma più capitale di rischio significa avere più merito creditizio e capacità di ottenere finanziamenti dal sistema bancario. Sfruttando appieno la garanzia data dallo Stato. Come capitalizzare le imprese? Un’unica ricetta non è possibile, anche se il bisogno è il medesimo e in modo trasversale investe i due milioni di aziende presenti in Italia. Questo perché le aziende hanno dimensioni diverse, operano in settori e filiere differenti e non si può pensare ad un intervento generalizzato del private equity e del venture capital, fino ad arrivare ai mercati finanziari e all’intervento diretto europeo. Viceversa, occorre affrontare l’urgenza della capitalizzazione distinguendo una serie di livelli successivi, che partano da una base comune e che via via si concentrano su un numero più ristretto di aziende di dimensione o di potenzialità più grandi. La base comune, che coinvolge dal più piccolo esercizio commerciale fino alla grande impresa, è quella della leva fiscale. Il Decreto Rilancio, affronta solo in parte questo aspetto ed è opportuno che nelle prossime settimane raccolga questa sollecitazione, tenuto conto delle raccomandazioni che proprio su questo versante ha espresso la “Commissione Colao”. La leva fiscale non solo deve livellare la differenza fra capitale di debito e capitale di rischio, ma deve incentivare comportamenti virtuosi, per cui l’irrobustimento patrimoniale non sia una tantum ma diventi un comportamento ricorrente. La leva fiscale deve agire su due versanti: quello dell’azienda e quello dell’azionista. Nel primo caso, il nostro paese ha visto a più riprese il tentativo di inserire incentivi in questa direzione (la DIT di Visco, l’ACE del Governo Monti) senza però rendere il meccanismo strutturale. Un consolidamento dell’ACE ad un’aliquota attraente (ben più del modesto 1,3% attuale) e calcolata non più sulla variazione del capitale di rischio, ma sull’intero importo, renderebbe il tema del capitale di rischio ben più serio. Nel secondo caso, gli azionisti (e quindi i proprietari del piccolo esercizio commerciale) devono avere un incentivo a trasferire parte della propria ricchezza nella propria azienda. Una riduzione (eliminazione?) della tassazione sui dividendi per chi detiene il capitale oltre un certo periodo di tempo e, ben più coraggioso, una riduzione dell’aliquota IRES o IRPPEF per chi investe in aumento di capitale di rischio, sarebbe una svolta epocale. La recente indicazione del Decreto Rilancio di favorire la ricapitalizzazione delle PMI (quelle sotto i 50 milioni di euro di fatturato) attraverso crediti d’imposta pari a una percentuale dell’aumento di capitale, va nella direzione giusta. Per le aziende più grandi e per quelle con più alto potenziale di sviluppo, oltre alla base comune, occorre promuovere l’utilizzo del mercato finanziario e l’intervento degli investitori (private equity, venture capital, PIR). Il tema rilevante oggi è come contemperare questa esigenza con l’altrettanto importante esigenza di utilizzo di risorse pubbliche, sia nazionali che europee ossia attraverso il recovery fund. Il rischio da evitare è quello di una statalizzazione dell’intervento nel capitale di rischio ed uno spiazzamento del mercato. La strada è invece quella di trovare le condizioni affinché l’intervento dello Stato venga valorizzato appieno e segua logiche di affiancamento ai capitali privati. Tre sono le riflessioni fondamentali. In primo luogo, il ricorso al mercato dei capitali è decisivo, in quanto i noti vantaggi (visibilità, accesso a risorse ulteriori, potenziale di crescita) sono ancora più importanti in una fase di crisi. Qui, avrebbe senso giocare la carta di un ulteriore premio sia su ACE che su azionisti. In secondo luogo, gli investitori in capitale di rischio, quotato e non (quindi venture capital, private equity, PIR) devono essere valorizzati con un chiaro incentivo sul capital gain, che è l’elemento vero che crea mercato e quindi attrae investitori generando liquidità. In terzo luogo, l’intervento statale deve avvenire o con una chiara ed autonoma logica di mercato (come annunciato dal nuovo e promettente “Fondo Italiano di Minoranze per la Crescita”) oppure attraverso un affiancamento necessario a investitori privati. Un meccanismo in questo caso di public-private partnership darebbe infatti forza d’urto - la presenza dello Stato - con agilità e orientamento al profitto tipico del privato. Quest’ultimo punto è la vera sfida: in una fase di crisi come quella attuale lo Stato è centrale e deve disegnare i giusti incentivi e meccanismi fiscali. Ma per il rilancio dell’economia, la presenza dello Stato non deve essere confusa con l’utilizzo di logiche statali. Questo vorrebbe dire abdicare al tavolo del rilancio del nostro paese e ad una perdita netta per i contribuenti.

Si stima che, già oggi, la domanda di nuove professioni digitali in Italia sia insoddisfatta per circa 500mila addetti. Un ‘buco’ destinato ad allagarsi molto con il rapido avanzare della rivoluzione digitale. Quali sono le proposte per colmare questo gap e qual è, in questo contesto, il ruolo dell’Università?
Dobbiamo scegliere una direzione e un progetto su cui puntare. È la condizione per ottenere le risorse che l’Europa ha messo a disposizione per costruire un percorso di sviluppo a lungo termine. Le parole di Draghi della scorsa estate ci dicono questo, ricordandoci che la direzione è solo una, il futuro, e che il capitale più prezioso sono i giovani. Perché sono digitali, perché credono davvero nell’ambiente, nella solidarietà e nella parità di genere, perché possono diventare imprenditori e leader, migliori di noi. Il messaggio di Draghi non è scontato perché il nostro è un paese che guarda al passato e in educazione, nuove imprese e ricerca (ossia i giovani!) investe molto poco. Il fardello del debito pubblico, sempre più pesante, e di cui dovremo rendere conto, è la rappresentazione chiara di questo: il mantenimento dello status quo e un’ipoteca sul futuro delle prossime generazioni. Come invertire la rotta? Se da un lato occorre lavorare ad un percorso vero di riduzione del debito, dall’altro occorre investire sull’intero percorso formativo dei giovani. Con risorse importanti e non con avanzi di spesa, con un progetto. Questo significa agire sulle strutture e sui contenuti. Le strutture sono fatte di edifici, di spazi e di laboratori, di attrezzature accessibili per tutta la giornata, che vanno ben al di là delle rotelle sotto i banchi. CDP ha lanciato a inizio anno un bond di impatto per ammodernare gli edifici scolastici: andiamo su questa direzione con un business plan completo, che copra a tappeto il nostro territorio. I contenuti e il modello formativo sono essenziali. I nostri licei, fra mille difficoltà e buona volontà dei singoli sono capaci di promuovere talenti in giro per il mondo. Questo deve diventare la norma, non l’eccezione, grazie al lavoro di tutti e senza perdere nessuno per strada, con una logica inclusiva. Si rimettano al centro quelle migliaia di docenti che con pochissime risorse fanno di molte scuole pubbliche un luogo di eccellenza. Si guardi all’aggiornamento radicale dei contenuti, all’inserimento di temi oggi centrali (la storia attuale, l’economia, il diritto, la programmazione), alla dimensione linguistica con le sue certificazioni e al coordinamento fra metodi di valutazione e accesso all’Università. Che è il motore della ricerca, dell’educazione e del collegamento con società e mondo del lavoro. Questo sforzo deve creare in modo diffuso talenti, capaci di rimanere intelligenti per lungo tempo. Un grande progetto dell’istruzione, che ragioni da venture capital dei giovani (con obiettivi, misure dei risultati e comparazione internazionale) promuovendone una loro crescita. Una sfida sorprendente, per progettare la prossima generazione di Paese.
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