Il 2 aprile 2025 sarà ricordato come il giorno in cui gli Stati Uniti hanno voltato le spalle all’ordine economico liberale. Donald Trump ha annunciato una valanga di dazi che non ha eguali nella storia recente: una media superiore al 20%, estesa non solo alla Cina ma a un elenco disordinato di Paesi amici e alleati, dall’Unione Europea al Giappone, fino a India, Corea del Sud e Vietnam. Un atto che somiglia più a un gesto di forza autarchico che a una strategia economica.
Trump, i dazi e il sogno dirigista che minaccia la democrazia
Le reazioni non si sono fatte attendere. I mercati globali hanno registrato un tracollo: Wall Street ha perso in una giornata ciò che non perdeva dai mesi neri del Covid. Le piazze europee sono crollate trascinate dai titoli industriali e tecnologici, mentre si intensificano le pressioni su banche centrali già in difficoltà. Il mondo ha capito in poche ore che non si tratta solo di una guerra commerciale, ma dell’inizio di un caos sistemico.
La logica del disordine
Il paradosso è che i principali colpiti dai dazi non sono i rivali storici degli Stati Uniti, ma i Paesi potenzialmente utili a contenere l’espansione cinese. Colpire il Vietnam con tariffe del 46%, lo Sri Lanka con il 44%, l’India con il 26% e il Giappone con il 24% non ha alcuna coerenza con una politica estera anti-Pechino. Al contrario, spinge questi Paesi verso nuove intese regionali, magari proprio con la Cina.
L’Europa, intanto, reagisce accelerando il dialogo con il Mercosur e aprendo, seppur con cautela, al commercio con Pechino. Canada e Messico si riavvicinano. L’effetto è l’isolamento progressivo di Washington in un sistema internazionale sempre più multipolare.
Un dirigismo mascherato da patriottismo
Dietro il linguaggio roboante sulla “rinascita americana” si intravede un progetto di potere che nulla ha a che fare con la difesa dell’industria nazionale. I dazi si trasformano in uno strumento di pressione economica usato per ottenere vantaggi politici. I Paesi “amici” potranno forse ottenere esenzioni, ma solo in cambio di concessioni bilaterali. All’interno, le imprese fedeli alla Casa Bianca verranno premiate con fondi e protezioni. Quelle critiche rischiano l’emarginazione.
Non è un’ipotesi. Già oggi università e studi legali sgraditi sono finiti nel mirino, con tagli milionari e minacce contrattuali. L’estensione di questa logica al tessuto economico è il prossimo passo. Una deriva che spezza i legami tra capitalismo e democrazia, sostituendo il mercato con la lealtà al potere.
La favola del manifatturiero
Trump promette milioni di nuovi posti di lavoro in fabbrica. Ma anche ammettendo che i dazi azzerino il deficit commerciale – un’ipotesi irrealistica – l’impatto sull’occupazione sarebbe minimo. I servizi assorbono gran parte del valore aggiunto industriale. I numeri lo dicono: si passerebbe al massimo dall’8 al 10% di occupazione manifatturiera. Troppo poco per giustificare un conflitto economico globale.
I numeri inventati della Casa Bianca
La giustificazione più assurda è quella secondo cui l’Europa imporrebbe dazi del 39% agli Stati Uniti. In realtà, il dazio medio è del 4,6%. Il 39% deriva da una formula priva di senso: si divide il deficit commerciale con l’UE per le importazioni da essa. Un trucco contabile, spacciato come verità economica, per giustificare misure arbitrarie.
Se valesse questo criterio, chiunque di noi avrebbe un “deficit” con il supermercato dove fa la spesa. Ma nessuno si sognerebbe di invocare un dazio. Eppure è con questo tipo di retorica – semplice, ingannevole, pericolosa – che si costruisce il nuovo nazionalismo economico.
Un rischio per tutti
Le conseguenze non si faranno attendere. I Paesi colpiti spingeranno per nuove barriere a loro volta. Le imprese cercheranno altri sbocchi, saturando mercati già fragili. Le richieste di protezione si moltiplicheranno ovunque, compresa l’Europa. Il rischio è un’implosione dell’attuale sistema commerciale, con guerre tariffarie bilaterali e spinte centrifughe anche dentro l’Unione.
Il mondo uscito dal secondo dopoguerra era stato costruito per evitare proprio questo scenario: un sistema fondato sul diritto, non sulla forza. Trump lo sta demolendo con una semplicità spaventosa. E nel farlo, ridisegna gli Stati Uniti come una democrazia sotto sorveglianza, dove l’economia serve il potere, non il cittadino.