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Trump spinge per la tregua mentre Papa Leone osserva il mondo in fiamme

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Trump spinge per la tregua mentre Papa Leone osserva il mondo in fiamme

Nel giorno in cui Benjamin Netanyahu varca la soglia della Casa Bianca per incontrare Donald Trump, presidente degli Stati Uniti, la guerra in Medio Oriente prosegue nel suo ritmo insensato. Ma sullo sfondo della diplomazia, dietro i razzi e i raid, è l’eco di un’altra voce a risuonare: quella di Papa Leone, il pontefice da poco eletto, che osserva con gravità il mondo bruciare nel punto esatto in cui la storia ha sempre sanguinato.

Trump spinge per la tregua mentre Papa Leone osserva il mondo in fiamme

Trump insiste: “Un cessate il fuoco è possibile entro una settimana.” Lo dice con l’urgenza di chi sa che il tempo della guerra è anche il tempo della politica. Ma Netanyahu, pur pressato da Washington e dal suo stesso presidente Herzog, continua a parlare di “condizioni inaccettabili”. Intanto a Gaza un razzo raggiunge il kibbutz di Nirim — senza fare feriti — e l’aviazione israeliana colpisce ancora: 33 morti. Non c’è tregua. E non c’è ancora pace.

Lo spettro dello Yemen e le onde che non fermano il fuoco


Il fuoco si allarga. Dallo Stretto di Hormuz al Mar Rosso, l’odore della guerra arriva fino allo Yemen. Israele ha colpito il porto strategico di Hodeida, mentre in arabo scorrono messaggi registrati: evacuate Ras Issa, Salif, la centrale elettrica di Hodeidah Ras al-Hatib. La guerra, come sempre, parla la lingua dei poveri e colpisce dove la geografia si fa fame.

Il presidente Stati Uniti sa che senza una tregua ora, la regione rischia l’implosione. Eppure anche il suo peso sembra fiaccato da una geopolitica che non riconosce più centri stabili. Il nuovo piano americano prevede dieci giorni di silenzio delle armi e un tavolo negoziale sotto garanzia di Qatar ed Egitto. Ma Netanyahu arriva logorato: dentro il suo governo si aprono crepe, fuori cresce l’isolamento. Washington diventa allora un campo minato, dove ogni parola è un rischio e ogni sorriso una maschera.

Il silenzio dopo Francesco, lo sguardo fermo di Leone

In Vaticano intanto regna un silenzio diverso. Papa Leone, eletto due mesi fa dopo la morte di Papa Francesco, non ha ancora parlato pubblicamente del conflitto. Ma chi lo ha incontrato racconta uno sguardo severo, da uomo che viene dalle valli e ha il passo di chi ha camminato tra la carne dei popoli. Francesco, il Papa dei migranti, delle periferie, dei gesti umani e disarmanti, ha lasciato un vuoto che pesa anche sulla diplomazia.

Leone non cerca di imitarlo. Non ne ha bisogno. Se Francesco fu il pastore che portava con sé l’odore delle pecore, Leone si muove con la calma dei monaci e la memoria lunga dei padri conciliari. Ricorda Leone XIII, non solo nel nome ma nello stile: una Chiesa che non benedice il potere, ma lo interroga. E mentre i leader si contendono tregue e vantaggi, il nuovo pontefice ha cominciato a scrivere encicliche senza ancora averle pronunciate: le scrive nei gesti, nelle visite riservate, nelle parole sussurrate ai diplomatici che salgono al Colle Vaticano.

Trump cerca una pace, Roma chiede un’anima

Così la giornata di oggi diventa anche un confronto tra piani diversi: il piano della forza, che Trump vuole indirizzare verso un accordo, e il piano dell’anima, che Leone ha appena cominciato a esplorare. Le guerre non si fermano con le carte firmate, ma con le idee condivise. E mentre il presidente Stati Uniti guarda Netanyahu negli occhi cercando una svolta, Roma osserva tutto questo con la pazienza dei secoli.

Papa Francesco ha insegnato a tenere insieme il dolore e il perdono. Papa Leone eredita un tempo ancora più disilluso, in cui la pace non è più una parola da proclamare ma un rischio da correre. I prossimi giorni diranno se i razzi taceranno. Intanto, sul mondo che non dorme, c’è un uomo che prega in silenzio. E un altro che stringe la mano a un alleato con troppa guerra alle spalle.

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