Nel conflitto ucraino continua a ripetersi lo schema consunto delle “trattative fantasma”: se ne parla, circolano indiscrezioni sui media internazionali, ma quando si arriva alla diplomazia reale, quella fatta di canali ufficiali e comunicazioni codificate, tutto evapora. La portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, lo dice senza mezzi termini: «Mosca non ha ricevuto alcuna informazione dagli Usa attraverso i canali ufficiali» riguardo a un presunto piano di pace. E aggiunge una frase che sa di ammonimento: «Se gli Stati Uniti avessero una proposta, l’avrebbero comunicata attraverso i canali in uso tra i ministeri degli Esteri».
Ucraina, tra smentite, pressioni e illusioni negoziali: Mosca chiude, Washington allude
Parole che descrivono bene lo stato delle relazioni: fra Mosca e Washington il dialogo diretto è ridotto ai minimi termini, confinato alla gestione delle crisi e alla deconfliction militare. Tutto il resto è retorica, oppure propaganda. E forse anche questo presunto “piano” rientra in quella zona grigia dove si misurano le intenzioni più che le possibilità.
L’Europa nella sua eterna ambiguità strategica
Nel frattempo, l’Europa ribadisce un mantra ormai consolidato: «Sosteniamo una pace giusta e duratura», dice l’alto rappresentante Ue Kaja Kallas, ma solo a patto che “Europa e Ucraina siano a bordo”. Una formula diplomatica che maschera l’impasse strategica di Bruxelles.
Il problema non è tanto la pace — parola che nessuno rifiuta per principio — quanto ciò che ognuno intende per “giusta”. Per Kiev significa la piena integrità territoriale; per Mosca significa esattamente l’opposto, la cristallizzazione delle conquiste sul campo. In mezzo, l’Europa, che continua a ripetere concetti corretti ma politicamente insufficienti a spostare anche di un millimetro l’asse della guerra.
Rubio e la realpolitik che non osa dire il suo nome
L’unica voce a introdurre un elemento di realismo è quella del Segretario di Stato americano, Marco Rubio (nella foto), che osserva: «Entrambe le parti devono accettare concessioni difficili ma necessarie».
È una frase che, in tempi di guerra totale, nessuno vuole sentire. Perché dice una verità semplice e brutale: ogni negoziato autentico nasce dal riconoscimento di una sconfitta, o almeno di un limite. Significa che né Mosca né Kiev possono averla vinta sul piano militare, e che prima o poi qualcuno dovrà sedersi al tavolo senza illusioni.
Ma questa verità non è ancora politicamente spendibile. Non per Washington, che continua a sostenere Kiev senza però immaginare un’escalation diretta; non per Mosca, convinta che il tempo giochi dalla sua parte; e soprattutto non per Kiev, dove il margine della concessione coincide con la sopravvivenza stessa dello Stato.
Il terreno di guerra: Ternopil e la contabilità della perdita
Mentre le cancellerie discutono di piani che non esistono, la guerra continua a dettare il calendario e il peso delle notizie. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha annunciato che ci sono ancora 22 dispersi dopo l’attacco russo della scorsa notte a Ternopil.
È la fotografia di un conflitto che, al di là delle manovre diplomatiche e delle frasi calibrate, produce ogni giorno nuovi crateri, nuovi lutti, nuove mancanze. Ogni attacco non è soltanto un evento militare: è un messaggio politico, un modo per dire che la guerra resterà sul tavolo finché qualcuno non imporrà davvero una tregua.
Il nodo politico: la pace senza interlocutori
Il problema, oggi, è che la pace non ha un interlocutore credibile.
Mosca non ha interesse a negoziare ora che ritiene di avere il vantaggio sul campo.
Kiev non può accettare alcun compromesso senza pagare un prezzo politico insostenibile.
Washington oscilla tra sostegno e pressione, tra armare Kiev e suggerire che forse non tutte le battaglie possono essere vinte.
L’Europa rimane un attore marginale, sempre più spettatrice che protagonista.
E così, mentre si parla di piani di pace, l’unico piano che avanza è quello del campo di battaglia.
La guerra come orizzonte, la diplomazia come eco
Nel linguaggio diplomatico si usa dire che una pace funziona solo se “gli attori rilevanti” sono pronti a sostenerla. Oggi nessuno lo è davvero. E allora la guerra continua, lenta, logorante, con la sua aritmetica crudele: territori contesi, vite perdute, dispersi da ritrovare.
In questo scenario, parlare di “concessioni difficili” è quasi un gesto d’avanguardia. Ma senza quella consapevolezza, senza uno slittamento reale da parte delle potenze coinvolte, ogni voce di negoziato resterà solo un riflesso, un’eco diplomatica di una guerra che nessuno, per ora, ha interesse a fermare davvero.