Il riposo di Augusto: ma de che?

- di: Barbara Leone
 
Austu e riustu è capu d’invernu. Tradotto dal siculo: ferragosto è l’inizio dell’inverno. Da che ho memoria ogni santo 15 d’agosto mia mamma, che è catanese, ripete questa frase. Probabilmente è da qui che nasce la mia istintiva antipatia per questa giornata, visto che da bambina l’associavo alla fine dell’estate. Che, si sa, è la stagione regina di tutti i pargoli. Non foss’altro perché non si va a scuola. Ma se un tempo il ferragosto mi metteva tristezza, fondamentalmente perché voleva dire fine dei giochi, da alcuni anni a questa parte la trovo una ricorrenza a dir poco urticante. Unitamente alla mandria di gente che le va dietro. E dire che c’ho pure provato più d’una volta ad adeguarmi all’usanza della scampagnata, della braciata e della compagnia con annesso casino. Peggio mi sento: è stato letteralmente un disastro. Me ne ricordo uno in particolare di ferragosto da incubo. Che solo a ripensarci mi vengono le bolle. Destinazione: lago di Bracciano, che sì e no saranno una quarantina di chilometri da Roma. In una giornata normale, pur con tutto il traffico dell’odiosa Cassia Bis, ci vorrà un’oretta al massimo.

Ebbene, ce ne mettemmo tre ad andare e più di quattro a tornare. Del parcheggio introvabile e della ressa sulla spiaggia non lo sto neanche a dire. L’anguria era diventata marmellata, i provoloni bagna cauda e tutte le fratte erano occupate per fare pipì. Una giornata da dimenticare, roba che Pasquetta pare un mortorio a confronto. Anche perché, vivaddio, quasi sempre piove. Pure a ferragosto molto spesso piove. Ma la gente se ne impipa altamente. Costi quel che costi, sole o pioggia che sia, gli italioti devono fare sta benedetta gita fuori porta. Che col romanico riposo di Ottaviano Augusto (le originarie feriae Augusti, da cui ferragosto, appunto)  non ha proprio niente a che fare. Anzi, riposo de che? Manco col cannocchiale, visto che fra traffico, file e controfile torni a casa più stanco (e pure più povero) di prima. Se poi la vogliamo dire tutta, è pure una festività fascistoide. Dal momento che fu proprio il duce a sdoganarla. Scimmiottando goffamente il primo imperatore di Roma, er puzzone (come lo soprannominavano tra i vicoli di Trastevere) decise che tra il 13 ed il 15 di agosto gli italiani dovevano andare tutti in massa in vacanza. S’inventò così i famigerati “Treni popolari di ferragosto”, convogli a prezzi stracciati che portavano gli italiani in giro per il Belpaese. Dando finanche, bontà sua, la possibilità ai nostri connazionali di scegliere (che per lui era una parolaccia e difatti non lo fece più) tra ben due opzioni: la “Gita di un sol giorno”, che comprendeva un raggio di 50-100 chilometri, e la “Gita dei tre giorni”, durante la quale ci si poteva allontanare fino ad un massimo di 200 chilometri.

Fu un successone, perché per la prima volta nella storia dell’Italia moderna gli italiani potevano, a prezzi ridottissimi, visitare spiagge, monti e città che difficilmente avrebbero visitato. Poi vabbè, è andata come andata. E già allora bisognava capire di che pasta siamo fatti, perché basta una vacanza a scrocco o giù di lì per infinocchiarci. E infatti altro non era che propaganda di quart’ordine. Uno specchietto per le allodole, insomma. Ma inizialmente fu una grande ed apprezzatissima novità. Tutta italiana, peraltro. Perché nel resto del mondo il 15 agosto è una giornata come tutte le altre. Eccezion fatta per la cattolica Irlanda, dove però si celebra la festa dell’Assunzione di Maria. Teoricamente è così anche da noi. E vorrei ben vedere, visto che siamo il Paese simbolo della Cristianità. Ma diciamoci la verità: chi se lo ricorda? E soprattutto: a chi importa dell’Assunzione di Maria? A nonna Vincenzina, zia Marietta e compare Peppino. Certamente a qualcuno interesserà pure. Ma è una minoranza. Per giunta silenziosa, e soprattutto che non spende, non consuma e non fa manco pipì dietro la siepe. Affollata. Quest’anno poi i dati parlano di un vero e proprio boom di presenze praticamente dappertutto. Complici i due anni di restrizioni da pandemia, gli italiani hanno una gran voglia di far baldoria. E di riunirsi, di stare vicini vicini e presumibilmente di mangiare e bere fino a farsi scoppiare il fegato. L’economia ringrazia, e siamo tutti contenti. Io mi accontenterò di giocare a sudoku sbracata sulla panza del mio cane nell’attesa di un temporale che, potete giurarci, arriverà puntuale come le cambiali. Perché austu e riustu è capu d’invernu. E donna Carmen non sbaglia mai. 
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