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La strage di migranti a Melilla: l'orrore e la morte sull'uscio di casa

- di: Diego Minuti
 
La strage di migranti a Melilla: l'orrore e la morte sull'uscio di casa
Quando accadono tragedie come quelle di ieri a Melilla, dove, alle porte africane dell'Europa, 18 persone sono morte in modo orrendo, schiacciate nella calca davanti alle barriere di ferro che proteggono l'enclave spagnola in territorio marocchino, le domande che vengono fuori sono tante e, ormai, sempre le stesse. 

Che questo accada ancora è un interrogativo che dobbiamo porci noi, semplici spettatori, ed anche chi, direttamente o meno, ha il suo tasso di responsabilità. Perché, se la disperazione porta a cercare di raggiungere Melilla, per sentirsi già in Europa, bisogna chiedersi se questo gesto può essere prevenuto e sventato sul terreno oppure se l'umanità ed il senso di accoglienza verso chi soffre debba avere applicazione più vera, e non solo limitandosi alla solita liturgia delle frasi fatte, 

Ma quello che appare evidente, e che purtroppo non sempre lo è agli occhi di chi è solo spettatore, è che i 18 morti di ieri (sempre che il bilancio resti questo) hanno un comune denominatore, la giovane età. E non perché alle porte di Melilla, dall'Africa nera subsahariana, arrivino solo ragazzi o giovani. No, la ragione principale è che, per cercare di scavalcare le alte barriere che separano l'inferno dal paradiso, bisogna essere forti, bisogna sapere correre, aggrapparsi, arrampicarsi, scavalcare, magari farsi valere nei confronti di chi ti sta accanto e di vuole superare. Non basta quindi ''solo'' essere disperati, ma esserlo da giovani, perché agli anziani, o anche alle persone appena mature, questo non è possibile. 

La strage di ieri ha ricalcato il solito canone. Centinaia di giovani neri (questa volta erano tutti o quasi sudanesi) hanno cercato di scavalcare le inferriate sperando che il loro numero impedisse agli agenti spagnoli di intervenire ovunque a tappare le falle del sistema di protezione della frontiera e che quindi una buona parte di loro riuscisse ad entrare nel territorio dell'enclave, almeno per potere essere ''schedati'' come richiedenti asilo e quindi sperare di potere avere quel benedetto lasciapassare verso quell'Europa che per loro è ancora il Paradiso. 

Lo schema è, in fondo, riuscito, perché almeno 130 degli assalitori sono riusciti a passare (anche se ora la loro posizione sarà vagliata per verificare se possono o meno avanzare la richiesta di asilo o il riconoscimento dello status di profugo). Ma, quando gli agenti hanno visto di non potere fermare centinaia di ragazzi che premevano sulle inferriate, è stato deciso, come deterrente, di lanciare granate lacrimogene che hanno provocato il terrore e, con esso, la calca che ha lasciato lungo il versante ancora marocchino di Melilla decine di corpi, alcuni dei quali letteralmente irriconoscibili per essere stati schiacciati dai loro compagni. Una tragedia che forse si poteva evitare, perché ha avuto una gestazione lunghissima, dopo due anni di chiusura del confine, come misura per contenere il covid, ma anche per la tensione che da tempo c'é tra Marocco e Spagna sulla gestione dei flussi di migranti verso Melilla. Un assalto che era nell'aria e che puntualmente si è verificato, ma il suo esito è stato tragico, mentre quello che l'ha preceduto, il 22 marzo scorso, era stato una disfatta per la polizia spagnola che ieri, invece, era presente in forze (almeno 1500 uomini, 50 dei quali rimasti feriti nei corpo a corpo contro gli assalitori). Ma il numero degli agenti non è servito come deterrente, anzi aumentando la disperazione di chi ha visto a portata di mano il paradiso e che è morto guardandolo attraverso delle sbarre d'acciaio. 
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