La premier minimizza lo strappo Usa con l’Ue, il ministro di Difesa sancisce che a Washington l’Europa non serve più.
(Foto: Donald Trump e Giorgia Meloni in un incontro a Washington qualche mese fa).
C’è un documento americano che descrive l’Europa come un continente in declino,
minacciato da un’«erosione della civiltà». E c’è un governo italiano che reagisce
con due voci diverse. Da una parte Giorgia Meloni, che rassicura,
smorza, minimizza. Dall’altra Guido Crosetto, che prende atto
senza giri di parole: per gli Stati Uniti di Donald Trump,
l’Unione europea serve poco o nulla. È in questo scarto di tono che si vede la
nuova postura italiana e, soprattutto, la crescente vicinanza politica e culturale
di Meloni al trumpismo.
Due linee nello stesso governo
Nella serata del 5 dicembre 2025, ospite al telegiornale di La7, la presidente
del Consiglio si presenta sorridente. Le viene chiesto delle parole durissime
contenute nella strategia di sicurezza nazionale americana, che prefigura un
futuro fosco per l’Europa. Lei non attacca, non contesta, non problematizza.
Anzi, ammette che «alcuni giudizi li condivido» e che sulle
politiche migratorie l’Unione europea ha sbagliato per anni.
Meloni insiste su un concetto chiave: l’Europa «deve essere capace di difendersi da sola».
Nessuna “rottura” con gli Stati Uniti, nessun conflitto aperto con Trump, ma la
presa d’atto di un processo «inevitabile», in corso da tempo. Il documento Usa
diventa, nelle sue parole, un pungolo per l’Europa, quasi una
«occasione» per crescere.
Crosetto, invece, va giù secco. In un post pubblicato il 6 dicembre 2025, il
ministro della Difesa scrive che la traiettoria americana era chiara già prima
di Trump, che il tycoon ha solo accelerato un percorso ormai irreversibile. Poi
la frase che ribalta il tavolo: «Trump ha esplicitato che l’Ue non gli serve».
Il ragionamento è brutale: l’Europa non ha risorse naturali decisive, è in ritardo
su innovazione e tecnologia, non dispone di una reale forza militare ed è percepita
come «piccola, lenta e vecchia» davanti ai nuovi protagonisti
globali.
Dove Meloni lavora di lima comunicativa, Crosetto usa la scure. La premier tutela
formalmente il rapporto con Washington e con Bruxelles; il ministro certifica la
marginalità europea nel calcolo americano e annuncia che da qui in avanti il
continente dovrà pagarsi da solo sicurezza, difesa, deterrenza. Non solo sul
piano militare.
Meloni sempre più trumpiana
Dietro la prudenza formale, il posizionamento di Meloni è chiaro: la premier
si muove in sintonia con la lettura trumpiana del mondo. Accetta il presupposto
di fondo – l’Europa come attore debole e inefficiente – e propone come risposta
non un’alleanza più forte tra Paesi europei, ma un rafforzamento nazionale
coordinato con Washington.
Quando spiega che «la difesa ha un costo economico e produce libertà politica»,
Meloni parla la lingua di Trump: se deleghi ad altri la tua sicurezza, paghi
un prezzo politico. Non c’è distanza ideologica; c’è una quasi perfetta
sovrapposizione di paradigma. L’America guarda alla sfida con la Cina, riduce
il peso dell’Europa, pretende più spesa militare dai partner Nato: la presidente
del Consiglio non contesta la cornice, ma cerca di far rientrare l’Italia
nella categoria dei Paesi affidabili, pronti a fare la loro parte.
Il legame con Trump non è solo tattico. Meloni condivide la critica alle
burocrazie europee, alla lentezza delle decisioni Ue, alle politiche migratorie
considerate fallimentari. Non si limita a difendere gli interessi italiani
nel quadro tradizionale dell’Unione, ma dà spesso la sensazione di considerare
Bruxelles un vincolo più che un orizzonte. Il documento americano, agli occhi
della premier, non è un affronto: è la conferma di una diagnosi che lei stessa
ripete da anni.
Crosetto, il realista che spiega il crepuscolo europeo
Se Meloni si sforza di rassicurare, Crosetto mette per iscritto ciò che molti
a Bruxelles preferiscono non dire ad alta voce. Nella sua analisi, gli Stati
Uniti non vedono più nell’Europa un alleato indispensabile, ma un’area
secondaria nella grande partita con la Cina. Ogni decisione americana, scrive,
sarà orientata a un solo obiettivo: il rafforzamento degli Usa in quella
competizione.
Il ministro elenca uno per uno i punti deboli dell’Unione: niente grandi
giacimenti energetici, ritardo cronico su innovazione e tecnologia, spesa
militare frammentata e insufficiente, istituzioni lente e litigiose. Non
c’è alcun tentativo di abbellire il quadro. Anzi, il linguaggio è volutamente
tagliente, quasi provocatorio, come se volesse togliere ogni alibi alla
classe dirigente europea.
La conseguenza, per Crosetto, è una sola: tocca all’Europa – e dentro
l’Europa all’Italia – costruire da sé il proprio scudo, non solo
contro minacce militari, ma anche sul fronte cyber, energetico, industriale.
Per anni abbiamo dato per scontato, sottintende, che gli americani avrebbero
garantito sicurezza “gratis”. Quel tempo è finito.
Il nodo Ucraina e la faglia con Salvini
Tutto questo avviene mentre l’Italia deve decidere se rinnovare o meno il
sostegno militare all’Ucraina. Su questo fronte Meloni è categorica:
«la linea del governo non cambia». Gli aiuti a Kiev, insiste,
servono a difendere anche l’interesse nazionale italiano, perché una Russia
vittoriosa renderebbe l’Europa più fragile e ricattabile.
In parallelo, però, Matteo Salvini alza il volume della
contestazione. Bolla come «illegale» il sequestro dei beni russi, mette in
dubbio l’efficacia dell’invio di nuove armi e richiama le parole del Papa
per spingere verso uno stop alle forniture militari. Arriva persino a dire
che in Russia ci sarebbero «meno corrotti» che in Ucraina e a evocare il
paragone con la Seconda guerra mondiale, sostenendo che Mosca ha già
sconfitto Hitler, «che era un attimino più attrezzato di Zelensky».
Meloni replica senza nominarlo, ma il bersaglio è evidente. Rivendica il
diritto di ascoltare gli alleati, ma ricorda che «i fili ce li hanno i burattini»:
il messaggio è che l’Italia non può trasformarsi in un Paese filorusso
sotto mentite spoglie pacifiste. Per la premier, la pace non si costruisce
disarmando Kiev, bensì con la deterrenza.
Su questo terreno Crosetto è più vicino a Meloni che a Salvini: il ministro
considera la difesa europea e il sostegno a Kiev parte della stessa partita
sulla credibilità dell’Occidente. Ma il suo pessimismo sull’Europa come
alleato agli occhi Usa spinge, di fatto, a un salto di responsabilità:
se davvero Washington guarda altrove, l’Italia non può permettersi di
ripiegare sul disarmo.
Tajani, il Mes e lo scontro interno su Mosca
La tensione non riguarda solo le armi. Nel dibattito europeo sull’uso degli
asset russi congelati per finanziare la ricostruzione ucraina, il ministro
degli Esteri Antonio Tajani si era detto disponibile a
valutare l’uso del Meccanismo europeo di stabilità come garanzia. Una
proposta che ha messo in imbarazzo Fratelli d’Italia,
storicamente ostile al Mes, e che ha offerto alla Lega un nuovo appiglio
per marcare la distanza.
Dopo qualche giorno di silenzio, i dirigenti di FdI hanno preso posizione:
nessun via libera all’uso del Mes come strumento di garanzia.
Il partito della premier si è riallineato alla sua impostazione tradizionale
e, di fatto, ha lasciato Tajani isolato. Segno che, quando si tocca il
terreno sensibile dei rapporti con Bruxelles e con Mosca, Meloni preferisce
non concedere spazi di ambiguità.
Sul versante leghista, invece, l’idea di non toccare i beni russi diventa
cavallo di battaglia. Salvini presenta la difesa della proprietà privata
come principio giuridico non negoziabile, ma il risultato politico è chiaro:
indebolire ogni iniziativa europea che aumenti la pressione su Mosca e
mettere sabbia nel motore delle sanzioni.
Prodi: Trump antieuropeo, la vera sfida è in casa nostra
Sullo sfondo, arriva anche la voce di Romano Prodi. L’ex
presidente del Consiglio, intervenendo a un convegno a Firenze, non concede
attenuanti a Trump: lo definisce apertamente «antieuropeo»,
convinto di poter dialogare solo con i leader autoritari. Per Prodi, non
serve nemmeno interpretare: il trumpismo è dichiaratamente ostile alla
costruzione politica europea, e la deriva non riguarda solo i movimenti
estremisti.
L’avvertimento è netto: il problema non è tanto Trump in sé, quanto la
capacità dei partiti tradizionali europei di resistere alla sua attrazione.
In Germania, nota Prodi, la Cdu sembra sempre più tentata di rincorrere
l’AfD sui suoi temi identitari, come se il centrodestra europeo fosse
spinto a inseguire il modello trumpiano anziché contrastarlo.
In questo quadro, la scelta di Meloni di non marcare pubblicamente la
distanza da Washington, e anzi di rivendicare punti in comune con la
lettura americana dei difetti europei, pesa come un segnale politico
forte: l’Italia di governo non fa muro, ma si dispone lungo l’asse
che va dalla Casa Bianca trumpiana ai nazionalismi europei.
Un’Europa da rifare o da archiviare?
Mettendo insieme i pezzi, il quadro è chiaro. Meloni considera l’Europa
riformabile, ma da una prospettiva nettamente sovranista: meno vincoli,
più poteri agli Stati, più controllo sulle frontiere, una difesa che non
contraddica ma affianchi la Nato. Crosetto, realistico fino al cinismo,
dà per assodato che agli Usa questa Europa interessa sempre meno. Salvini
sfrutta la faglia per spingere verso un disimpegno militare e un rapporto
più morbido con Mosca.
Ne nasce una geometria instabile: una premier vicina a Trump
nei giudizi strategici e nei toni sul declino europeo, un ministro della
Difesa che traduce quella visione in diagnosi impietosa e in richiesta di
riarmo, un alleato leghista che sfrutta il nuovo quadro per frenare sulle
sanzioni e sulle armi a Kiev. Il tutto dentro un’Unione europea che, nel
frattempo, fatica a trovare una voce unitaria proprio su difesa, energia,
allargamento, rapporti con Pechino.
La domanda allora è semplice, e insieme enorme: questo scontro di toni
dentro il governo italiano è solo una parentesi, o l’anticipazione di una
nuova stagione, in cui l’Italia sceglierà definitivamente il modello
trumpiano, accettando la marginalizzazione dell’Europa, oppure proverà a
usare quel modello come leva per rifare l’Unione dall’interno?
Un bivio senza rete di sicurezza
La differenza di registro tra Meloni e Crosetto non è un dettaglio. È il
sintomo di un passaggio storico in cui l’Italia deve decidere dove stare.
Una premier che condivide molti assunti di Trump, pur
mantenendo la forma della lealtà europea; un ministro che dichiara, senza
filtri, che per Washington l’Europa è diventata un problema più che una
risorsa; una maggioranza attraversata da pulsioni filopacifiste che, però,
spesso coincidono con un ammorbidimento verso Mosca.
In gioco non c’è solo la prossima risoluzione sull’Ucraina o il prossimo
decreto armi. In gioco c’è la collocazione internazionale dell’Italia
nei prossimi decenni. O l’Europa diventa davvero capace di difendersi e
di parlare con una voce sola, oppure l’abbraccio a Trump rischia di
trasformarsi, col tempo, in una dipendenza asimmetrica. E allora la frase
di Crosetto – l’Ue non serve più all’America – da diagnosi esterna potrebbe
diventare una profezia autoavverante.