Sa(n)remo pagati?

- di: Barbara Leone
 
Trecentocinquantamila euro, trecentomila euro, centomila euro. Sono questi i compensi percepiti rispettivamente da Amadeus, Morandi e Ferragni per il Festival di Sanremo. Non ce ne scandalizziamo, ci mancherebbe. Sappiamo bene che, a fronte di queste e di altre elevatissime uscite, il Festival di Sanremo genera ricavi complessivi che si aggirano intorno ai sessanta milioni di euro, tra raccolta pubblicitaria di Rai ed impatto legato alle attività su territorio. Il punto non è che Amadeus o chi per lui guadagni cifre astronomiche. Ma che altri nell’ambito della stessa manifestazione percepiscano stipendi da fame rapportati all’impegno ed alla professionalità profusi. L’esempio più lampante è vergognoso è dato dagli orchestrali. Che negli anni si sono ridotti in maniera esponenziale per il semplice motivo che, da orchestrale, il Festival di Sanremo se lo conosci lo eviti come la peste. La questione è stata recentemente sollevata dal maestro Beppe Vessicchio, uno che di Festival e di orchestre se ne intende eccome. Non foss’altro perché fa parte dei veterani dell’Ariston. Ebbene, lo sapete quanto guadagna un professore d’orchestra su quel palco? Duemila euro netti, che per gli aggiunti (ovvero i precari delle orchestre che non hanno un contratto a tempo indeterminato) scende a 1930 euro lordi con un bonus forfettario di rimborso spese pari a 180 euro totali. Cachet che se tutto va bene vengono liquidati e dopo un anno. Il tutto per cinque settimane di lavoro. E che lavoro! Perché per gli orchestrali del Festival il tour de force inizia più di un mese prima che si alzi il sipario. Si parte con dieci giorni negli studi romani della Rai ove i maestri, che per la cronaca si sono fatti un mazzo quadrato per laurearsi nei rispettivi strumenti al Conservatorio, provano i pezzi dei cantanti in gara, gli attacchi, le sigle, le entrate degli ospiti e quant’altro. Poi fanno la valigia e si spostano all’Ariston, dove si sbattono come polli dalle 10 del mattino sino alle 21 di sera.

Ogni due ore hanno una pausa di un quarto d’ora per sgranchirsi le gambe e una risicata pausa pranzo. Stop. Praticamente entrano di giorno con la luce ed escono di notte col buio, dopo aver passato un giorno intero con le cuffie che batte il clic (ovvero il metronomo per tenere il tempo) e la musica a palla nelle orecchie. Il che vuol dire che pure di notte se le sognano ste benedette canzoni del Festival, perché dopo una giornata sana sana magari avranno pure il cervello in pappa. A ritmo di blues, ma sempre in pappa rimane. Ma è il loro lavoro, direte voi. E poi la visibilità, il prestigio di partecipare a cotanto evento. Magari una volta, ma oggi no. Vista anche la mediocrità delle proposte artistiche, che certamente non valorizzano il ruolo musicale di un’orchestra. E così succede che i signori professionisti della musica si ritrovino a dover dire signorsì ai peggio scappati di casa. Che gli schiaffano sul leggio spartiti di livello imbarazzante con arrangiamenti degni del peggior karaoke. E probabilmente pure pseudo direttori d’orchestra che li rimbrottano. Perché mica c’è solo Vessicchio (che è un egregio artista) o il grande Geoff Westley, non a caso scelto per la direzione musicale durante i Festival targati Baglioni. Che, essendo un musicista con la M maiuscola, nelle sue edizioni non ha mai svilito l’orchestra (anzi!), perlomeno dal punto di vista artistico. Cosa che, invece, si è puntualmente verificata quest’anno, così come in tutte le precedenti edizioni messe in mano ad Amadeus. Uno che, a dispetto dell’altisonante nome che riecheggia quel mostro sacro che fu Mozart, la musica non sa proprio dove sta di casa. Ma, tralasciando il pur importante aspetto artistico, ciò che è davvero vergognoso è l’aspetto economico. Perché sarà pure vil il danaro, ma visto che la gloria scarseggia credo sia lecito pretendere perlomeno di essere ben pagati. E invece no. Tant’è vero che l’orchestra dell’Ariston si rimpicciolisce ogni anno di più. Perché alla Sinfonica di Sanremo, da cui provengono gli orchestrali, la maggior parte dei maestri rifiuta e va avanti, parafrasando un noto quiz televisivo. Anche perché, vivaddio, durante il Festival l’attività dell’orchestra madre prosegue. Ed è ovvio che uno strumentista tra il suonare Rosa Chemical e Beethoven scelga quest’ultimo.

Visto quello che pagano, anzi che non pagano, dall’altra parte. Ciò che poi offende profondamente la professionalità di questi musicisti, è l’oscena disparità di trattamento economico. Perché funziona così: ci sono gli orchestrali (quelli che vengono dalla musica classica, e cioè direttamente dalla Fondazione Orchestra Sinfonica di Sanremo) e poi ci sono i componenti della ritmica (chitarre, bassi, tastiere, pianoforti e percussioni), che vengono invece chiamati dalla Rai. E che hanno un cachet a parte. A discrezione, perché ci sono chitarristi o batteristi che chiedono dai 350 euro ai 500 euro al giorno, e che da liberi professionisti prezzano liberamente la propria prestazione. La proporzione è uno a dieci, perché a Sanremo se sei un violinista aggiunto guadagni 50 euro al giorno contro i 500 di un chitarrista x o y che tanto chiede. A lui glieli danno, pure se è una pippa. A te no, con buona pace dei titoli di studio ed artistici maturati in chissà quanti anni. Che poi su quel palco il ruolo dell’orchestra classica è puramente scenico. E per capirlo non occorre manco esser laureati al Conservatorio. Basta un minimo di intuizione per comprendere che è finzione, o poco più. Con direttori che non sono direttori, e arrangiatori che non sono arrangiatori perché oramai fa tutto il computer. E basta saper smanettare su uno dei tanti programmi musicali per mettere insieme una (finta) partitura. Nessuno da quelle parti sa sfruttare, anche in minima parte, le immense potenzialità di una orchestra sinfonica. Tirano a sorte, attribuendo ai vari strumenti note che non hanno niente a che vedere con quello strumento. Semplicemente per incompetenza. Poveretti, non lo sanno fare. Mica è colpa loro, ma di chi li chiama. Perché a Sanremo uno si aspetta, che ne so, arrangiatori come Celso Valli, Vince Tempera o giù di lì. Nomi completamente spariti dall’Ariston. Artisticamente oramai si gioca al ribasso, col risultato che dettano legge personaggi che, esattamente come la maggior parte dei cantanti in gara, conoscono due cose in croce: chitarra, chitarra elettrica, batteria e al massimo ottoni. Stop. Di quello che può fare un violino o un oboe non ne hanno la più pallida idea. Allora tanto vale eliminarla l’orchestra. Poi se proprio uno dopo anni ed anni di studio si deve ritrovare a strimpellare quattro note messe a cavolo, che non sia per due soldi. Almeno tre! Come l’opera di Brecht. Ma a Sanremo chi la conosce?

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