“Basta rinvii”: l’automotive italiano sfida il Green Deal e chiede una cura d’urto per salvare fabbriche, fornitori e lavoro.
(Foto: Emanuele Orsini, presidente di Confindustria).
L’auto europea ha tirato il freno a mano, quella italiana teme il testacoda. All’assemblea pubblica di Anfia, la filiera dell’automotive, Confindustria, Stellantis e governo italiano hanno trasformato il podio dell’Auditorium della Tecnica in una vera e propria tribuna d’accusa contro Bruxelles, accusata di aver messo l’industria dell’auto in una strettoia di regole, divieti e scadenze considerate irrealistiche.
Il contesto è incandescente: fra pochi giorni la Commissione europea dovrà sciogliere il nodo del pacchetto auto del 16 dicembre, che potrebbe riscrivere – almeno in parte – il percorso verso lo stop ai motori endotermici dal 2035 e la traiettoria dei limiti di CO2 per i prossimi anni. Sul tavolo non c’è solo il destino delle auto a benzina e diesel, ma la sopravvivenza di una filiera che in Italia vale centinaia di migliaia di posti di lavoro diretti e indiretti.
La resa dei conti all’assemblea Anfia
Dal palco, il presidente di Confindustria Emanuele Orsini non usa giri di parole. Il messaggio è netto: in Europa, negli ultimi anni, si sono sommate norme, divieti e target ambientali che hanno finito per indebolire proprio il settore che storicamente ha trascinato l’industria manifatturiera. Gli industriali riconoscono che qualche correzione di rotta è in corso, ma rifiutano l’idea di altri semplici rinvii o aggiustamenti marginali.
Orsini rivendica il confronto con il modello americano: negli Stati Uniti, ricorda, la politica industriale è stata rimessa al centro, con incentivi calibrati per riportare impianti e investimenti sul territorio nazionale. L’Europa, al contrario, viene descritta come un cantiere normativo perenne, dove i regolatori dettano obiettivi ambientali senza preoccuparsi abbastanza degli effetti su produzione, occupazione e competitività.
Il leader degli industriali lancia una sfida diretta a Bruxelles: basta proroghe, servono “medicine vere”. La metafora è chiara: la cura non può essere spostare in avanti la data delle decisioni, ma cambiare ricetta, ripensando il mix fra obiettivi climatici e salvaguardia dell’industria.
Filosa: i numeri di Stellantis e il pragmatismo Usa
In collegamento dagli Stati Uniti interviene Antonio Filosa, amministratore delegato di Stellantis. I toni sono più misurati, ma la sostanza è la stessa: l’Europa sta perdendo la gara del pragmatismo.
Filosa parte dai fatti. Un anno fa, con il cosiddetto Piano Italia, Stellantis aveva promesso 2 miliardi di euro di investimenti negli stabilimenti italiani e 6 miliardi di acquisti dai fornitori nazionali. Oggi il bilancio va oltre le attese: i 2 miliardi di investimenti sono stati confermati e gli acquisti dalla filiera italiana sono saliti a 7 miliardi di euro, un miliardo in più del target iniziale. Un segnale che, almeno sulla carta, indica la volontà del gruppo di continuare a scommettere sull’Italia.
Il rovescio della medaglia è però pesante: la produzione di Stellantis nel Paese è scesa sotto il mezzo milione di veicoli nel 2024, con appena 283 mila auto passeggeri assemblate, il livello più basso degli ultimi circa 70 anni. E lo stesso ad annunciare che il 2025 potrebbe vedere un ulteriore calo di volumi, prima di un possibile rimbalzo, è proprio Filosa.
Per l’ad, il destino degli impianti italiani dipende direttamente dalle decisioni che l’Ue prenderà sulle regole di CO2. Se il quadro normativo resterà rigido e poco flessibile, sostiene, sarà impossibile pianificare investimenti e modelli a lungo termine, mentre la concorrenza globale – a partire dalla Cina – corre forte sia sull’elettrico sia sui costi.
Da qui la richiesta di maggiore flessibilità: mantenere obiettivi climatici ambiziosi, ma consentire un ruolo più ampio a ibridi plug-in e motori a combustione altamente efficienti alimentati con carburanti a basse o nulle emissioni fossili, anche oltre il 2035. Una linea in sintonia con l’appello lanciato al fianco del cancelliere tedesco Friedrich Merz perché l’Ue non imbocchi un vicolo cieco tecnologico basato solo sull’elettrico puro.
Urso: “no a palliativi, serve un ribaltone sul Green Deal”
Il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, si allinea senza esitazioni al fronte industriale. Collegato all’assemblea, avverte che il tempo delle “misure tampone” è finito e che l’Italia non si accontenterà di qualche aggiustamento cosmetico da Bruxelles.
Nel mirino c’è la revisione del percorso che porta allo stop alle immatricolazioni di auto a benzina e diesel dal 2035. Per Urso non basta spostare di qualche mese o anno l’entrata in vigore di nuove norme: serve un cambiamento radicale dell’impianto del Green Deal applicato all’automotive, restituendo piena centralità a neutralità tecnologica, tutela dell’occupazione e salvaguardia delle filiere europee.
Il ministro annuncia inoltre la preparazione di un documento comune con il governo tedesco, centrato su automotive e siderurgia, per presentare a Bruxelles una posizione congiunta dei due grandi Paesi manifatturieri dell’Unione. L’obiettivo è piegare l’agenda comunitaria verso una correzione di rotta che consenta di tenere insieme transizione verde e sopravvivenza industriale, evitando quello che lo stesso Urso, in altre occasioni, ha definito il rischio di un’“industria desertificata”.
Vavassori: “2025 anno di minimo storico, oltre non si può scendere”
Se la politica alza la voce, chi misura sul campo gli effetti della transizione è Roberto Vavassori, presidente di Anfia. Lo scenario che delinea è tutt’altro che rassicurante: il 2025, per l’industria auto italiana, è destinato a diventare l’anno di minimo storico della produzione. Un punto così basso che, avverte, se si dovesse scendere ancora, interi pezzi della filiera rischierebbero di non rialzarsi più.
Vavassori descrive la transizione come una “traversata del deserto” in cui la filiera è arrivata “con le borracce vuote”: produzione in forte calo, ritardi nella riconversione degli impianti e un mercato che cresce meno del previsto sull’elettrico puro. Al centro resta Stellantis, che nel mondo conta oltre 50 stabilimenti, cinque dei quali in Italia. Per l’industria nazionale, tornare ad avere almeno il 10% della produzione globale del gruppo nel nostro Paese sarebbe un risultato minimo da difendere con le unghie.
Ma l’associazione degli industriali non si limita alle lamentele. Vavassori suggerisce una ricetta precisa sul fronte normativo: spostare il “phase out” dei motori endotermici dal 2035 al 2040, monitorando anno per anno il grado di decarbonizzazione, e consentire che fino al 25% delle nuove immatricolazioni dopo il 2035 possa essere alimentato con carburanti rinnovabili e non fossili. In parallelo, propone un piano decennale di rottamazione europea da almeno 3 milioni di veicoli all’anno con incentivi intorno ai 5.000 euro, vincolati a mezzi a basse o zero emissioni e a un contenuto minimo di componentistica europea.
La partita di Bruxelles: pacchetto auto del 16 dicembre e stop 2035
Sullo sfondo delle rivendicazioni italiane c’è un’Europa divisa. La Commissione ha appena rinviato al 16 dicembre la presentazione del pacchetto auto, originariamente attesa per il 10, segno di un negoziato interno tutt’altro che semplice. Nel dossier confluiscono più fronti: la revisione dello stop alle auto a combustione dal 2035, l’eventuale riconoscimento di biofuel e carburanti sintetici, il ruolo degli ibridi plug-in, la riforma dei target intermedi di CO2 e l’estensione del dazio ambientale alle importazioni (CBAM) ad altri prodotti industriali.
Alcuni governi – fra cui Italia, Germania, Polonia, Ungheria, Bulgaria, Repubblica Ceca e Slovacchia – spingono per ammorbidire il divieto di vendita di motori endotermici dal 2035, chiedendo una maggiore apertura verso tecnologie di transizione e carburanti alternativi. Una pressione che riflette il timore di vedere l’industria europea travolta dalla concorrenza asiatica, in particolare cinese, sia sui veicoli elettrici sia sulla componentistica.
Dall’altro lato della barricata, però, c’è chi teme un pericoloso passo indietro sul fronte climatico. Oltre 200 soggetti della filiera dell’elettrico – da produttori di colonnine a costruttori come Polestar e Volvo – hanno scritto alla presidente della Commissione Ursula von der Leyen per chiedere di non annacquare gli obiettivi 2035. Secondo loro, ogni ritocco al ribasso sui target di CO2 o il rilancio massiccio di plug-in e carburanti sintetici rallenterebbe la corsa agli investimenti sull’elettrico e allargherebbe il divario con la Cina.
Tra Green Deal e industria: due fronti che si guardano in cagnesco
Il confronto, dunque, non è più solo fra governi e Bruxelles, ma fra due anime della stessa transizione. Da una parte l’industria tradizionale, che rivendica tempi e regole compatibili con i cicli di investimento, i bilanci delle aziende e la tenuta sociale dei territori; dall’altra, la galassia dell’elettrico e delle rinnovabili, convinta che ogni rallentamento normativo rischi di trasformare l’Europa in una “terra di mezzo” fra Stati Uniti e Asia.
In mezzo ci sono i numeri: vendite di auto elettriche che crescono ma non al ritmo immaginato, una rete di ricarica ancora disomogenea, prezzi di listino spesso troppo alti per il ceto medio e un parco circolante europeo vecchio, con milioni di vetture Euro 3, 4 e 5 ancora in strada. Per molti osservatori, senza un grande piano di sostituzione del parco circolante – elettrico, ibrido, termico a basse emissioni, ma comunque molto più pulito dell’attuale – la sola data del 2035 rischia di essere più uno slogan che una soluzione concreta.
È proprio su questo terreno che Anfia, Stellantis e governo italiano chiedono all’Ue di cambiare marcia: meno ideologia, più pragmatismo industriale. In altre parole, fissare obiettivi climatici severi, ma costruendo un percorso realistico che non costringa le imprese europee a competere a mani legate con chi, fuori dall’Ue, non ha vincoli altrettanto stringenti.
Cosa c’è in gioco per l’Italia
Per l’Italia, il dossier auto non è un capitolo tecnico, ma una questione di politica industriale nazionale. La filiera vale una fetta rilevante del Pil manifatturiero, con poli produttivi concentrati in Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna, Lazio e Campania, e una catena di subfornitura che spazia dalla meccanica alla gomma, dall’elettronica alla chimica.
Se Stellantis dovesse spostare altrove modelli e piattaforme, l’onda d’urto non si fermerebbe ai grandi stabilimenti: coinvolgerebbe migliaia di piccole e medie imprese, spesso poco internazionalizzate e con margini finanziari ridotti. Da qui l’insistenza di Anfia sul tema del “local content europeo”: chiedere che le future regole Ue premino le vetture con una quota minima di componenti prodotti in Europa, così da non trasformare il Vecchio continente in un semplice mercato di sbocco per veicoli assemblati altrove.
La stessa Stellantis, nell’incontro di settembre al Mimit con Urso e Vavassori, ha condiviso la necessità di difendere il ruolo dell’Italia nella produzione di veicoli commerciali leggeri e di piccole auto, segmenti in cui il Paese ha storicamente un posizionamento forte. Ma perché questo accada, occorre che le norme europee non penalizzino in modo sproporzionato proprio i segmenti più accessibili al grande pubblico, quelli cioè che fanno i volumi e tengono in piedi le catene di fornitura.
Gli scenari dopo il 16 dicembre
A questo punto, la data chiave è una sola: 16 dicembre. Il pacchetto che la Commissione presenterà – o che potrebbe addirittura rinviare ancora, secondo alcune indiscrezioni – farà capire se Bruxelles è pronta ad accogliere almeno in parte le richieste dell’asse Roma–Berlino e dei Paesi che chiedono più flessibilità, oppure se sceglierà una linea più vicina alle istanze della filiera dell’elettrico.
Gli scenari possibili vanno da un ritocco mirato dei target intermedi di CO2 (per evitare multe miliardarie alle Case già nel 2030) a maglie più larghe per plug-in e carburanti rinnovabili, fino a un vero e proprio slittamento parziale della deadline del 2035, magari limitata ad alcune categorie o a una quota di immatricolazioni. Sullo sfondo si muove anche il tema dei dazi anti-Cina sulle auto elettriche e quello dell’estensione del CBAM, che potrebbero ridisegnare l’equilibrio fra apertura ai mercati globali e difesa dell’industria europea.
Una cosa, però, è già chiara: la pazienza dell’industria auto italiana è finita. Anfia, Stellantis e governo si presentano al tavolo europeo con una posizione insolitamente compatta. E il messaggio che arriva da Torino e Roma, al netto dei diversi toni, è uno solo: se l’Europa vuole davvero restare una grande potenza industriale, l’auto deve tornare al centro del progetto europeo, non in fondo alla lista delle compatibilità politiche.