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Il triangolo e il tempo: settantotto estati di bikini

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Il triangolo e il tempo: settantotto estati di bikini

Ci sono oggetti che non coprono. Raccontano. Non servono a proteggere, ma a dichiarare. Il bikini, per esempio. Un piccolo frammento di stoffa — due triangoli per il petto, uno per il bacino — che settantotto estati fa fece tremare il mondo più di una dichiarazione d’indipendenza. Era estate, faceva caldo come oggi, e qualcuno disse che il corpo di una donna non doveva più restare nascosto.

Il triangolo e il tempo: settantotto estati di bikini

Non fu una rivoluzione nel guardaroba. Fu un gesto. L’inizio di qualcosa che ancora non aveva nome, ma che avrebbe cambiato il modo in cui le donne si muovono, si siedono, nuotano, prendono il sole, esistono nello spazio pubblico. Il diritto di mostrarsi senza essere interrogate. Di non doversi più giustificare.

Un nome esplosivo

Louis Réard
, l’uomo che lo ideò, non lo chiamò costume da bagno. Lo chiamò bikini. Un nome mutuato dall’atollo del Pacifico su cui, pochi giorni prima, gli americani avevano testato una bomba atomica. Sapeva che avrebbe avuto lo stesso effetto: uno shock, un’esplosione, una fenditura nella morale. Non aveva torto.

Nessuna modella volle indossarlo. Era troppo. Troppo corto, troppo scoperto, troppo. Alla fine lo fece una ballerina, Micheline Bernardini, che del proprio corpo faceva mestiere e libertà. Le scrissero oltre 50.000 lettere. Alcune di ammirazione, molte di condanna. Il bikini divenne subito leggenda.

L’ombelico come frontiera

A fare scandalo non era il seno — che si poteva intuire anche sotto il costume intero — ma l’ombelico. Quel piccolo cratere che segnava il passaggio tra l’infanzia e il desiderio. L’ombelico è ciò che resta del nostro legame con l’origine, con la madre, con la dipendenza. Mostrarlo era dire: io sono nata, ma adesso scelgo io.

Quel centimetro di pelle ha rappresentato, per decenni, il confine tra ciò che era permesso e ciò che non lo era. In molte spiagge era vietato. In alcune città si rischiava l’arresto. Ma piano piano, estate dopo estate, la stoffa si riduceva e la libertà cresceva.

Il corpo torna a casa

Ogni volta che una donna indossa un bikini, anche senza pensarci, compie quel gesto originario. Dice qualcosa. Dice: questo è il mio corpo. Lo espongo al sole, al mare, al mondo. Non per venderlo. Non per compiacere. Ma per abitarlo. È il contrario dell’oggettificazione. È soggettività pura. Il corpo che torna a sé, che prende posto.

Il bikini è stato a lungo strumento di scandalo. Poi è diventato moda, poi normalità. Oggi rischia di diventare invisibile. Ma la sua storia è tutt’altro che finita. In molte parti del mondo è ancora vietato. In altre, è motivo di vergogna. Il corpo femminile resta campo di battaglia: troppo magro, troppo grasso, troppo scoperto, troppo coperto. E il bikini, ancora, lo racconta.

Settantotto estati, e ancora qualcosa da dire

Settantotto estati non sono solo un tempo. Sono un archivio. Dentro ci sono le fotografie delle nonne, con i costumi a righe sotto gli ombrelloni bianchi e blu. Ci sono le madri che lo indossavano con timidezza, e le figlie che lo hanno indossato per sfida. E adesso, ci siamo noi, le donne di oggi, che ogni anno lo riprendiamo dal cassetto chiedendoci se abbiamo ancora voglia. O coraggio. O pazienza.

Non tutte lo amano. Alcune preferiscono costumi interi, più avvolgenti. Altre lo indossano solo quando sono sole, per non sentirsi guardate. Ma ognuna, a suo modo, sa che dietro quei pochi centimetri di tessuto c’è un’eredità. Una memoria. Una libertà che non è mai scontata.

Il corpo non è un'opinione

Non importa quanto costi, né quanto sia piccolo. Importa come ci fa sentire. E se, in mezzo a una spiaggia affollata, sotto il sole che cuoce la pelle e i pensieri, una donna si sdraia in bikini e si addormenta, allora vuol dire che — almeno per un momento — ha trovato pace. La pace di chi non deve più difendersi dal proprio corpo.

C’è un’idea di futuro, in quel triangolo cucito nel 1946. L’idea che non si debba più scegliere tra bellezza e intelligenza, tra pudore e dignità, tra essere vista e avere voce. Che si possa, semplicemente, essere. Anche sotto il sole, anche con le gambe nude, anche con l’ombelico esposto al vento.

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