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Cinque anni dopo: il lungo oblio della pandemia

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Cinque anni dopo: il lungo oblio della pandemia

Nel marzo di cinque anni fa, l’Italia si chiudeva in casa. Un’intera generazione imparava parole nuove – lockdown, distanziamento sociale, droplet – mentre le città si svuotavano e le sirene delle ambulanze sostituivano il vociare delle strade. Oggi, di quella stagione, resta una memoria sbiadita, frammentata, come se un grande buco nero avesse inghiottito gli anni più difficili del nostro tempo recente. Non siamo fatti per ricordare le pandemie.

Cinque anni dopo: il lungo oblio della pandemia

Lo dimostra la storia. Della Spagnola del 1918 si parlò poco nei decenni successivi, nonostante i suoi milioni di morti. Eppure, chi c’era racconta che le famiglie piangevano i loro cari come in guerra, che i bambini si abituavano a non abbracciare i nonni e che gli ospedali rigurgitavano corpi in attesa di una sepoltura. Eppure, di quella catastrofe, restano solo tracce sbiadite nei ricordi collettivi. La pandemia di Covid-19 ha subìto lo stesso destino.

L'oblio calcolato
Il primo segnale dell’oblio è stato la rimozione. Dopo le immagini dei camion militari di Bergamo e gli infermieri con i volti segnati dalle mascherine, è iniziata una sorta di assuefazione collettiva. A emergenza finita, la gente ha smesso di parlarne. Le commemorazioni si sono fatte sempre più rade, gli studi scientifici sugli effetti a lungo termine sono finiti in secondo piano, e persino i governi – quegli stessi governi che per mesi hanno regolato la nostra quotidianità con bollettini e decreti – hanno preferito spostare il discorso su altre emergenze: la guerra in Ucraina, la crisi energetica, l’inflazione.

Eppure, le cicatrici restano. Non solo nella sanità, che ancora oggi paga il prezzo di una gestione affannata, con personale ridotto e ospedali sovraccarichi. Non solo nei bilanci pubblici, sfiancati da due anni di ristori e cassa integrazione. Ma soprattutto nelle vite quotidiane di milioni di persone.

I sopravvissuti invisibili
Ci sono i “long Covid”, quelli che la malattia non ha mai lasciato del tutto e che, tra stanchezza cronica e problemi respiratori, portano addosso il peso di un virus ormai fuori dalle notizie. Ci sono le persone anziane che hanno vissuto la pandemia in solitudine e ora si ritrovano, più che mai, isolate. E poi ci sono i bambini, quelli che hanno imparato a leggere con la mascherina, quelli che hanno fatto il loro primo anno di scuola davanti a uno schermo e che oggi faticano a riconoscere il senso di comunità.

Il Covid ha anche ridisegnato le città e il lavoro. Le case sono diventate uffici, le riunioni si fanno su Zoom, gli spazi pubblici sono stati ripensati per garantire più distanza. Ma chi si ferma a riflettere su come questa esperienza abbia cambiato il nostro modo di vivere? Chi, tra un bollettino economico e l’ennesima polemica politica, si prende il tempo di chiedersi cosa ci sia rimasto di quei giorni?

Un’epidemia di rimozione
C’è un motivo se il passato recente ci sfugge. Lo hanno spiegato bene psicologi e storici: il nostro cervello non è fatto per conservare i traumi collettivi. Ricordare troppo a lungo significherebbe convivere con un’ansia costante, con la paura che tutto possa ripetersi. E allora rimuoviamo. Come fecero i nostri nonni dopo la guerra. Come fecero i loro nonni dopo la Spagnola.

Ma l’oblio non è senza conseguenze. Rimuovere significa anche non imparare. Oggi, mentre l’OMS avverte che nuove pandemie potrebbero arrivare, siamo più preparati di prima? O abbiamo già dimenticato tutto?

Un Paese che guarda avanti, ma non indietro
Tra qualche anno, la pandemia sarà solo una riga nei libri di storia, un ricordo confuso per chi l’ha vissuta e un’ombra sfuggente per chi è nato dopo. Ma la storia – quella vera, non quella che scegliamo di ricordare – ci insegna che dimenticare è un lusso che non possiamo permetterci. Perché se è vero che non siamo fatti per ricordare le pandemie, è anche vero che sono loro a ricordarsi di noi.

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