Conflitti globali mettono a rischio 61 mld di export e il 40 % dell’energia importata. Le PMI italiane in prima linea, tra incertezze geopolitiche e dipendenze strategiche.
(Foto: Marco Granelli, presidente di Confartigianato).
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Il mondo brucia, e l’Italia – con le sue imprese, la sua dipendenza energetica e la sua vocazione export-oriented – rischia di trovarsi ancora una volta al centro della tempesta. È Confartigianato a suonare l’allarme: tra guerre e tensioni internazionali, 61,4 miliardi di esportazioni italiane sono appese a un filo, mentre il 40,7 % del nostro fabbisogno energetico importato proviene da paesi instabili, in guerra o ad alto rischio geopolitico. Il quadro tratteggiato è tutt’altro che rassicurante, con scenari che evocano il rischio di una crisi a catena: colli di bottiglia energetici, blocchi nei canali strategici, rialzi dei costi per le imprese, calo della competitività e contrazione del Pil.
Le zone rosse dell’export: Medio Oriente, Asia, Est Europa e Nord Africa
Il dato più allarmante riguarda la mappa dell’export italiano. Confartigianato individua 25 Paesi considerati a rischio elevato, in cui si concentra quasi il 10 % delle esportazioni totali italiane. Il valore complessivo ammonta a 61,4 miliardi.
Le principali aree coinvolte sono:
• Medio Oriente: 27,1 miliardi, in crescita rispetto al 2024;
• Egitto, Libia, Turchia: 21,9 miliardi, ma con un calo brusco nel primo trimestre 2025 (-14,7 %);
• Russia, Ucraina, Bielorussia: 6,6 miliardi, con un crollo del 10,4 %;
• India e Pakistan: 5,8 miliardi, area in lieve crescita (+6 %) nel 2025 nonostante le tensioni.
Tra le imprese italiane più esposte figurano quelle della moda, gioielleria, occhialeria, alimentari, arredo e prodotti metallici, settori in cui dominano micro e piccole imprese: ben un terzo dell’export nei mercati a rischio proviene da loro. “È su queste realtà che pesano le incertezze: meno strumenti di copertura, più difficoltà logistiche, maggiore vulnerabilità ai contraccolpi del mercato globale”, osserva Marco Granelli, presidente di Confartigianato. “Creare stabilità internazionale è una precondizione per la tenuta economica del nostro Paese”.
Lo spettro energetico: dipendenza e vulnerabilità dello Stretto di Hormuz
Non meno preoccupante è il fronte energetico. L’Italia dipende per oltre il 40 % del suo approvvigionamento energetico da Paesi coinvolti direttamente o indirettamente in conflitti. Il nodo cruciale è lo Stretto di Hormuz, corridoio marittimo tra Oman e Iran da cui transita oltre un quarto del petrolio mondiale trasportato via mare e circa il 20 % del gas naturale liquefatto (GNL).
Nel 2025, l’Italia ha importato attraverso questo canale merci energetiche per 9,6 miliardi di euro – una fetta rilevante del nostro fabbisogno. Le fonti principali:
• Arabia Saudita: 3,5 miliardi (greggio e raffinato)
• Iraq: 2 miliardi
• Qatar: 2,5 miliardi (GNL)
• Emirati Arabi Uniti: 0,7 miliardi
• Kuwait: 0,6 miliardi
L’instabilità della regione, acuita dal recente attacco israeliano su Isfahan e dalle ritorsioni iraniane su navi mercantili, rende lo scenario particolarmente esplosivo. Secondo un’inchiesta pubblicata da Reuters, “una chiusura anche parziale dello Stretto comporterebbe effetti a valanga sull’approvvigionamento energetico europeo, con un’impennata immediata dei prezzi del barile e possibili razionamenti”.
Perché i prezzi alla pompa non sono ancora esplosi
La Cgia di Mestre ha rilevato che, a differenza di quanto avvenne nel 2022 con l’invasione russa dell’Ucraina – quando nel giro di due settimane i prezzi alla pompa aumentarono del 17 % per la benzina e del 24 % per il diesel – oggi il mercato sembra reggere. I prezzi restano sostanzialmente stabili. Ma, avverte la Cgia, “potrebbe trattarsi di un ritardo temporaneo nell’impatto sul consumatore finale”. L’attuale tenuta si deve anche a una minore dipendenza diretta da Mosca e a scorte preventive accumulate dopo l’inverno.
Cosa accadrebbe con un nuovo shock energetico
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF), nel Documento di Economia e Finanza 2025, ha simulato uno scenario con un aumento del prezzo del greggio di 10 dollari al barile e un rincaro di 10 euro per MWh sull’energia elettrica. L’effetto? Una contrazione del PIL dello 0,2 % nel 2026, seguita da un ulteriore 0,1 % nel 2027. “L’Italia paga ancora un prezzo alto per la sua esposizione energetica”, sottolineano gli economisti del MEF.
La risposta europea: transizione sì, ma troppo lenta
Mentre l’Italia si dibatte tra instabilità e dipendenza, l’Unione Europea continua a procedere sulla strada della transizione verde. Secondo l’European Energy Outlook 2025 (pubblicato dal Politecnico di Torino a marzo), le fonti rinnovabili coprono ormai il 45 % della produzione elettrica europea, un dato in forte aumento rispetto al 15 % del 2000. Tuttavia, la dipendenza complessiva dalle importazioni energetiche è ancora al 58 %, con forti divari tra i Paesi membri.
“Serve uno scatto politico”, ha dichiarato il vicepresidente della Commissione UE in un recente discorso a Strasburgo. “Finché l’Europa non diventerà davvero indipendente dal punto di vista energetico, resteremo ostaggi della geopolitica”.
PMI italiane strette nella morsa: servono scudi e visione strategica
A pagare il prezzo più alto, ancora una volta, saranno le piccole imprese. “Il nostro sistema produttivo è estremamente esposto. Le micro e piccole aziende sono agili ma fragili”, osserva Riccardo Realfonzo, economista e direttore del Centro di Ricerche sulla Finanza Pubblica. “Senza strumenti finanziari specifici – assicurazioni contro il rischio politico, fondi rotativi, meccanismi di sostegno all’export nei mercati instabili – rischiamo di assistere a un’ondata di ritiri”.
In questo contesto, serve una visione industriale e geopolitica, che l’Italia sembra ancora non possedere. Mentre Francia e Germania costruiscono “cordoni di protezione” intorno ai settori più vulnerabili, in Italia la risposta è ancora frammentaria. Il sistema delle Camere di commercio, così come SACE, ICE e SIMEST, dovrebbero essere messi in condizione di operare con rapidità, risorse e coordinamento, soprattutto nei paesi “ad alto rischio”, dove la presenza italiana è forte ma instabile.
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Il commento: tra vulnerabilità e ritardo strategico
Il paradosso è evidente: mentre il made in Italy continua ad essere apprezzato nei mercati internazionali, cresce la nostra dipendenza da scenari geopolitici che non controlliamo.
Abbiamo costruito la nostra forza economica sull’export e sull’energia a basso costo, ma oggi entrambe le leve rischiano di spezzarsi. Le guerre in corso non sono lontane: passano per i porti, i prezzi, le reti digitali, le catene di fornitura. E quando si rompe un anello, a farne le spese è il sistema intero.
Serve una risposta all’altezza, che sia politica prima ancora che economica: diversificazione vera dei fornitori, tutela delle PMI, rafforzamento delle alleanze energetiche, potenziamento dell’autonomia strategica europea. Perché se è vero che la globalizzazione non è finita, è anche vero che è cambiata. E chi non si attrezza, finisce fuori gioco.