Alla conferenza Onu di Belém sul clima un fronte trasversale di stati avverte la presidenza brasiliana: senza una vera tabella di marcia per abbandonare petrolio, carbone e gas l’accordo finale rischia di saltare. Nel mezzo, le ambizioni verdi di Lula, la resistenza delle potenze fossili e un’Amazzonia che guarda al mondo chiedendo coerenza.
(Foto: un momento della Cop 30).
Lo scontro sulla bozza brasiliana
Nel caldo umido di Belém, affacciata sull’Amazzonia, la Cop30 è arrivata al punto di rottura. Più di 30 paesi hanno scritto alla presidenza brasiliana della conferenza chiedendo di stravolgere l’ultima bozza di accordo, giudicata troppo debole su quello che per molti è il nodo dei nodi: l’uscita dai combustibili fossili.
La proposta sul tavolo, definita da diversi negoziatori come un testo quasi “prendere o lasciare”, non contiene infatti alcun riferimento esplicito a una roadmap globale per ridurre e poi azzerare l’uso di petrolio, carbone e gas. Una scelta che ha fatto insorgere un’inedita coalizione di stati europei, latinoamericani e piccoli paesi vulnerabili, convinti che senza una traccia chiara sul fossile la Cop amazzonica si trasformi in un vertice di buone intenzioni e poco più.
In una lettera indirizzata alla presidenza e circolata tra le delegazioni nelle prime ore del 21 novembre 2025, i governi firmatari spiegano che la bozza, così com’è, non raggiunge neppure la soglia minima di credibilità. “Sarebbe impossibile presentare a cittadini e parlamenti un testo che non indichi come e quando iniziare davvero a uscire dai combustibili fossili”, sintetizza un negoziatore europeo coinvolto nella stesura del documento. La minaccia è chiara: senza correzioni la bozza potrebbe essere respinta, trascinando la conferenza in una lunga notte di veti incrociati.
Chi guida il fronte pro roadmap
A spingere per una tabella di marcia sulla transizione energetica non è soltanto l’Unione europea. In prima fila c’è la Colombia, che nelle ultime Cop si è ritagliata il ruolo di voce radicale del Sud globale contro il fossile, affiancata da paesi come Francia, Germania, Regno Unito, Spagna, Svezia, Costa Rica, Cile e da un gruppo di piccoli stati insulari che vivono sulla propria pelle l’innalzamento dei mari e l’erosione delle coste.
Secondo le ricostruzioni delle delegazioni presenti a Belém, più di 80 paesi sostengono l’idea di inserire nell’esito della Cop un impegno formalizzato a lavorare, da qui ai prossimi anni, a una roadmap per la “transizione giusta, ordinata ed equa” dai combustibili fossili. L’idea non imporrebbe date precise a nessun governo, ma creerebbe un processo politico con tappe, verifiche e indicatori misurabili, trasformando la formula generica concordata a Dubai in qualcosa di più concreto.
La ministra dell’Ambiente colombiana, Irene Vélez Torres, lo ha spiegato con parole nette nelle interviste rilasciate a Belém: “Questa conferenza non può accontentarsi di un accordo qualunque pur di chiudere i lavori. Il successo non è mettere la firma su un testo vuoto, ma ottenere un risultato all’altezza della crisi climatica e delle aspettative delle persone”, ha sottolineato, avvertendo che un compromesso annacquato sarebbe letto come un fallimento della diplomazia climatica e un tradimento delle generazioni più giovani.
La trincea delle potenze del petrolio
Sul fronte opposto si muove un blocco eterogeneo ma compatto di grandi esportatori e consumatori di combustibili fossili. Tra questi spiccano Arabia Saudita e Russia, che già a Cop28 avevano cercato di indebolire qualsiasi riferimento esplicito a “fase out” o “uscita” dal fossile, insistendo sul mantra della neutralità tecnologica e delle emissioni, più che delle fonti energetiche.
Accanto a loro, secondo varie testimonianze diplomatiche, si collocano paesi come India e altri membri del gruppo dei cosiddetti “like-minded developing countries”, che rivendicano il diritto a usare carbone, petrolio e gas per sostenere la crescita e l’elettrificazione di popolazioni ancora lontane da standard di benessere occidentali. La richiesta è di concentrare il negoziato sulle riduzioni di emissioni e sui finanziamenti, evitando di “demonizzare” il fossile come tale.
Uno dei negoziatori di questo fronte riassume così la posizione, a condizione di anonimato: “Non possiamo firmare impegni che sembrano scritti solo per chiudere le raffinerie in Europa, mentre nei nostri paesi milioni di persone non hanno accesso a un’energia affidabile”. Dietro le parole, però, pesa il timore che una roadmap riconosciuta a livello Onu diventi, nel tempo, un argomento giuridico in più per cause climatiche e contenziosi contro compagnie e governi.
Il fantasma di Dubai e la soglia di 1,5 gradi
La battaglia di Belém è il seguito diretto di quella combattuta a Dubai nel 2023. A Cop28, per la prima volta nella storia dei negoziati, quasi 200 paesi hanno approvato un testo che invita a “transition away from fossil fuels”, cioè a spostarsi gradualmente dai combustibili fossili verso le rinnovabili. Un passo definito “storico” da molte istituzioni internazionali, ma privo di scadenze dettagliate su quando chiudere centrali e giacimenti.
Da allora, le valutazioni degli organismi scientifici e delle agenzie Onu hanno continuato a ripetere lo stesso messaggio: senza tagli rapidi all’uso di petrolio, carbone e gas l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a 1,5°C rispetto all’era preindustriale diventa quasi impossibile. Proprio per trasformare quella formula di Dubai in un percorso concreto è nata l’idea di una roadmap globale, discussa per mesi in incontri tecnici e consultazioni informali prima della Cop amazzonica.
Per i paesi più vulnerabili – soprattutto i piccoli stati insulari del Pacifico – Belém è il banco di prova di quella promessa. Le delegazioni ricordano come, già a Dubai, molti leader si fossero detti delusi da un compromesso giudicato insufficiente rispetto alla gravità della crisi climatica. Una nuova intesa al ribasso in Amazzonia rischierebbe di alimentare la sfiducia nei confronti dell’intero processo multilaterale sul clima.
Lula tra ambizioni verdi e contraddizioni sul petrolio
Sul palcoscenico di questa partita si muove il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, che ha voluto fortemente la Cop30 in Amazzonia per rilanciare l’immagine verde del Brasile dopo gli anni di arretramento ambientale. Lula ha più volte sostenuto pubblicamente la necessità di una tabella di marcia globale per abbandonare il fossile e ha annunciato l’intenzione di portare questo tema anche nei prossimi vertici di G7 e G20.
Allo stesso tempo, però, il governo è finito nel mirino delle organizzazioni ambientaliste per le licenze esplorative concesse a Petrobras nell’area dell’Equatorial Margin, vicino alla foce del Rio delle Amazzoni. L’approvazione di nuovi progetti di perforazione in un ecosistema considerato estremamente delicato, a poche settimane dall’inizio della Cop, ha scatenato proteste di movimenti locali, comunità indigene e Ong internazionali, che accusano Brasilia di voler essere “capitale del clima” senza rinunciare alla rendita petrolifera.
La contraddizione è evidente anche per gli osservatori che seguono da anni la politica energetica brasiliana: da un lato taglio della deforestazione e rilancio delle politiche di protezione della foresta tropicale, dall’altro la difesa di un ruolo centrale di Petrobras nello sviluppo economico del paese. A Belém, Lula cerca di tenere insieme queste due anime, presentandosi come mediatore tra Nord e Sud del mondo, ma la crisi sulla bozza d’accordo rimette il Brasile al centro delle critiche.
Lettere, incendi e minacce di bloccare tutto
L’ultimatum dei paesi pro-roadmap è esploso nelle stesse ore in cui un incendio all’interno del centro congressi ha costretto a sospendere per diverse ore riunioni e plenarie. Le immagini di delegazioni evacuate, corridoi pieni di fumo e addetti alla sicurezza in azione hanno raddoppiato l’impressione di una Cop in difficoltà, compressa tra scadenze politiche e ostacoli imprevisti.
Quando le trattative sono riprese, il clima si è fatto ancora più teso. Da un lato, alcuni paesi favorevoli alla roadmap per l’uscita dal fossile hanno fatto capire, anche pubblicamente, di essere pronti a bloccare il documento finale se la richiesta non fosse accolta. Dall’altro, dentro il fronte dei paesi produttori, sono circolate minacce di abbandonare il tavolo qualora il riferimento al progressivo abbandono di petrolio, carbone e gas fosse reintrodotto in modo esplicito e vincolante.
Nel mezzo, il presidente della Cop30, il diplomatico brasiliano André Corrêa do Lago, cerca di evitare che la conferenza deragli. In più occasioni ha ricordato che “nessun testo perfetto è possibile”, ma che i governi hanno la responsabilità di consegnare al mondo un risultato che non sembri un passo indietro rispetto alle decisioni già prese. Una formula che, nelle ultime ore, viene letta come il tentativo di tenere aperta una finestra per un compromesso sulla roadmap senza spaccare definitivamente la sala negoziale.
Finanza, adattamento e la domanda che nessuno può eludere
La disputa sul fossile rischia anche di oscurare altri capitoli cruciali ancora aperti a Belém: dall’aggiornamento dei piani climatici nazionali, giudicati nel complesso insufficienti a mantenere la traiettoria di 1,5°C, alla definizione di nuovi obiettivi di finanza climatica per sostenere l’adattamento e la transizione nei paesi più poveri. Senza accordi robusti su questi punti, avvertono gli esperti, qualunque formula sulla roadmap rischia di restare lettera morta.
Molti paesi in via di sviluppo insistono su un principio semplice: nessuno contesta la necessità di abbandonare il fossile, ma la velocità e la giustizia del percorso dipenderanno dalla quantità di risorse messe sul tavolo da chi è responsabile della maggior parte delle emissioni storiche. Senza un salto nella finanza climatica – sovvenzioni, non solo prestiti – la roadmap potrebbe trasformarsi in un elenco di buone intenzioni a cui nessuno può davvero dare seguito.
Eppure, al netto della complessità, una domanda attraversa tutte le delegazioni: dopo aver finalmente riconosciuto, a Dubai, la necessità di uscire dall’era fossile, è credibile una Cop nel cuore dell’Amazzonia che non dica in modo chiaro come iniziare davvero a farlo? Per molti paesi, la risposta è già arrivata nella forma di un ultimatum scritto nero su bianco. Ora la palla è nel campo della presidenza brasiliana e dei grandi produttori di petrolio e gas.
Perché la Cop amazzonica è un test di credibilità globale
Al di là dei dettagli tecnici, la posta in gioco a Belém è la credibilità dell’intero processo Onu sul clima. Se la Cop che si svolge nel cuore della foresta amazzonica, a pochi chilometri da comunità indigene che subiscono da anni gli impatti della crisi climatica, dovesse chiudersi con un accordo percepito come annacquato, a uscirne indebolita non sarebbe solo la presidenza brasiliana, ma l’idea stessa che la via multilaterale sia ancora in grado di produrre risposte all’altezza.
Il paradosso è evidente: mai come oggi il consenso scientifico è chiaro sulla necessità di ridurre rapidamente l’uso dei combustibili fossili, e mai come oggi il peso politico dei produttori è riuscito a frenare le decisioni più scomode. In questo spazio stretto, la proposta di una roadmap globale tenta di costruire un compromesso: nessuno viene obbligato domani a chiudere pozzi e miniere, ma tutti sono chiamati a sedersi attorno a un tavolo per definire tempi, criteri di equità e strumenti finanziari.
Se a vincere saranno le resistenze delle potenze fossili, la Cop amazzonica passerà alla storia come un’occasione mancata. Se invece la roadmap troverà spazio nel testo finale, anche a costo di notti insonni e virgole negoziate parola per parola, Belém potrà essere ricordata come il momento in cui il mondo ha smesso di girare attorno al problema e ha iniziato – finalmente – a disegnare, nero su bianco, l’uscita dall’era dei combustibili fossili.