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L’economia italiana nel 2025, il passo corto di un Paese che resiste

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
L’economia italiana nel 2025, il passo corto di un Paese che resiste

C’è un’Italia raccontata dai comunicati e un’Italia restituita dai numeri. Nel 2025 le due versioni continuano a guardarsi in cagnesco. Da una parte il governo, con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, rivendica la tenuta del sistema: inflazione sotto controllo, deficit in discesa, occupazione che cresce. Dall’altra, le opposizioni parlano di stagnazione, fabbriche spente, famiglie che faticano ad arrivare a fine mese. La verità, come spesso accade, non sta nel mezzo ma nei dettagli: ed è una verità fatta di piccoli passi avanti e di nodi irrisolti.

L’economia italiana nel 2025, il passo corto di un Paese che resiste

Secondo le stime dell’ISTAT, il 2025 si chiude con una crescita del PIL intorno allo 0,5%, meno dello 0,7% dell’anno precedente. È una crescita che esiste più nelle tabelle che nella percezione collettiva. A sostenerla è soprattutto la domanda interna: investimenti legati ai cantieri del Pnrr e consumi delle famiglie, che aumentano lentamente grazie a un mercato del lavoro un po’ più robusto. Ma l’Italia resta un Paese che cammina con il freno a mano tirato, penalizzato da una domanda estera che non aiuta: le importazioni crescono più delle esportazioni e il contributo del commercio internazionale diventa negativo.

Il confronto europeo che pesa
Se si allarga lo sguardo oltreconfine, il passo corto italiano appare ancora più evidente. L’Unione europea cresce in media dell’1,4%, la Spagna corre vicino al 3%, la Polonia va oltre, la Francia mantiene un ritmo moderato ma costante. L’Italia resta indietro, superata quasi da tutti, con la sola Germania a fare peggio. È un dato che alimenta un senso di immobilismo strutturale: non una crisi, ma una cronica mancanza di velocità.

Il lavoro cresce, ma in modo sbilanciato
Sul fronte dell’occupazione i segnali sono meno cupi. Il tasso di occupazione sale al 62,7%, con quasi 150 mila occupati in più nei primi dieci mesi dell’anno e una disoccupazione scesa al 6%. Numeri che consentono al governo di rivendicare risultati. Ma anche qui, scavando, emergono le fratture. L’Italia resta ultima in Europa per partecipazione al lavoro, soprattutto femminile. A crescere sono soprattutto gli occupati over 50, mentre i giovani arretrano. Aumentano gli autonomi, calano i dipendenti. È un mercato del lavoro che regge, ma che invecchia e si frammenta.

Fabbriche immobili, manifattura in affanno
La fotografia più statica del 2025 arriva dalla produzione industriale. L’indice resta inchiodato intorno a 93, lo stesso livello di fine 2024. Nessuna vera ripartenza, solo oscillazioni mensili. Alcuni comparti resistono, come l’estrattivo e la metallurgia; altri arretrano in modo evidente, dalla chimica al tessile, fino alla raffinazione. È il segnale di una manifattura che fatica a ritrovare slancio in un contesto globale instabile e in un mercato interno che non accelera.

Inflazione domata, carrello ancora caro
L’inflazione, almeno sulla carta, è sotto controllo: 1,1% nei primi undici mesi dell’anno. Un successo rispetto alle fiammate del passato recente. Ma la media inganna. Scendono i costi dell’energia e delle comunicazioni, mentre continuano a salire ristorazione, servizi ricettivi, sanità e alimentari. Ed è su queste voci che si concentra la spesa quotidiana delle famiglie. Così l’inflazione percepita resta più alta di quella ufficiale, e il malcontento non si dissolve.

Conti pubblici più ordinati, debito sempre lì
Il deficit scende al 3% del PIL, il livello più basso dal 2020, e il saldo primario torna positivo. Un risultato che rafforza la credibilità finanziaria del Paese. Ma il debito resta un convitato di pietra: 136,2% del PIL, zavorrato anche dall’eredità dei bonus edilizi. Le previsioni parlano di una possibile discesa dal 2027. Per ora, resta un gigante silenzioso che condiziona ogni scelta.

Un equilibrio che non consola
Il 2025 economico si chiude così: non un disastro, ma nemmeno una svolta. Un Paese che resiste, ma senza cambiare passo. Che tiene i conti, ma fatica a creare prospettive. È un equilibrio fragile, fatto di numeri che non crollano e di aspettative che restano basse. E mentre l’anno finisce, la domanda resta sospesa: resistere basterà ancora, o prima o poi servirà qualcosa di più.

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