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Produzione industriale, settembre rimbalza ma il trimestre no

- di: Jole Rosati
 
Produzione industriale, settembre rimbalza ma il trimestre no
Computer ed elettronica trascinano il rimbalzo, moda e chimica frenano. Dopo oltre due anni di scivolate quasi ininterrotte, l’industria torna a respirare ma chiede certezze su incentivi e Transizione 5.0.

A settembre la produzione industriale italiana torna finalmente a muoversi in avanti. Dopo il brusco arretramento di agosto, l’indice destagionalizzato segna un +2,8% rispetto al mese precedente e torna in territorio positivo anche su base annua, con un +1,5% rispetto a settembre 2024. Il rimbalzo è netto e coinvolge tutti i principali raggruppamenti di industrie, dall’energia ai beni strumentali. Ma non basta ancora a raddrizzare il quadro: nella media del terzo trimestre il livello produttivo resta in calo, -0,5% rispetto ai tre mesi precedenti, segno che la risalita è solo all’inizio.

Settembre appare quindi come un punto di svolta potenziale dopo una lunga fase di debolezza, con oltre due anni di flessioni quasi continue a livello tendenziale. L’industria italiana rialza la testa, ma lo fa in un contesto ancora fragile: consumi selettivi, prezzi alla produzione solo in leggero aumento e molta incertezza su incentivi e politica industriale.

Balzo dopo il buco di agosto

Il dato di settembre segue un agosto da dimenticare, con una caduta mensile dell’output industriale superiore al 2%. Il rimbalzo successivo è quindi anche un effetto di correzione tecnica, che riporta la produzione su livelli più coerenti con l’andamento del resto dell’economia, ma non cancella il solco scavato nei mesi precedenti.

Nel dettaglio, la crescita coinvolge tutti i principali comparti: energia, beni strumentali, beni intermedi e beni di consumo ritrovano il segno più, con l’energia che mette a segno uno degli aumenti più robusti. È un segnale importante, perché indica che il sistema produttivo si sta muovendo in modo relativamente sincronizzato, non trainato da una sola nicchia.

Resta però il dato che pesa nella media del trimestre: da luglio a settembre la produzione è ancora leggermente sotto i livelli dei tre mesi precedenti. L’industria italiana, insomma, non è uscita dal tunnel: ha solo imboccato, per ora, una galleria un po’ più illuminata.

Chi corre: computer, elettronica, farmaci e tavola

A guardare dentro i numeri si scopre che a tirare la volata sono soprattutto i settori a più alto contenuto tecnologico e quelli legati ai consumi primari. La fabbricazione di computer e apparecchi elettronici segna un aumento annuo a doppia cifra, oltre il +12%, segno che la domanda di tecnologie digitali, componenti e dispositivi continua a essere vivace, spinta anche dagli investimenti in automazione e transizione digitale.

Molto bene anche le industrie alimentari, delle bevande e del tabacco, che mettono a segno una crescita annua nell’ordine di quasi il +9%. In un quadro di consumi prudenti, il carrello della spesa regge meglio di altri capitoli: si tagliano abiti e oggetti discrezionali, ma la tavola resta una priorità, pur con strategie più attente alle promozioni e ai prezzi.

Segno positivo, seppure più contenuto, anche per la farmaceutica, con la produzione di medicinali di base e preparati farmaceutici in incremento. È un settore che negli ultimi anni ha mostrato una notevole resilienza, intrecciando innovazione, invecchiamento della popolazione e domanda sanitaria strutturalmente in crescita.

Chi frena: moda, legno-carta e chimica

Accanto ai motori che spingono, non mancano però i freni. La moda resta in difficoltà: tessile, abbigliamento, pelli e accessori registrano ancora un calo marcato, nell’ordine di oltre il 4% su base annua. Il combinato disposto di consumi più sobri, concorrenza internazionale aggressiva e cambiamento delle abitudini di spesa pesa su uno dei comparti simbolo del made in Italy.

In calo anche l’industria del legno, della carta e della stampa, con una flessione annua attorno al -4%, e la chimica, anch’essa su livelli negativi analoghi. Si tratta di settori che risentono sia del rallentamento di alcune filiere manifatturiere a valle, sia di dinamiche ancora incerte sul fronte dei costi energetici e delle materie prime.

Nel complesso, il quadro rimane a macchia di leopardo: chi è riuscito a innovare, digitalizzare e agganciarsi alle nuove catene globali del valore corre; chi è rimasto più legato a modelli tradizionali o a mercati in sofferenza fatica a ritrovare slancio.

Consumatori tra sollievo e scetticismo

Le associazioni dei consumatori accolgono il rimbalzo con una combinazione di sollievo e realismo. L’idea di fondo è che un singolo mese positivo non possa ribaltare un trend negativo lungo più di due anni. Per questo i numeri di settembre vengono letti come un primo segnale, non come la fine dei problemi.

Codacons sottolinea come il miglioramento arrivi dopo una sequenza di cali talmente lunga da lasciare ancora un saldo complessivo sfavorevole. In questa chiave, l’associazione invita a non fermarsi al segno più: serve capire se la ripresa industriale sarà in grado di tradursi in occupazione stabile, salari reali meno compressi e prezzi più equilibrati.

Anche l’Unione nazionale consumatori mantiene i toni prudenti. Dopo una serie di scivolate tendenziali protrattasi per mesi, il rimbalzo viene definito ancora insufficiente a colmare il gap con il passato recente. L’associazione ricorda che famiglie e imprese hanno attraversato un biennio complicato, tra carovita, tassi alti e incertezza geopolitica, e che la fiducia si ricostruisce solo con segnali ripetuti nel tempo.

Nel commercio al dettaglio, Confcommercio legge nei dati industriali un indizio di ripresa autunnale, ma mette in evidenza il calo deciso per alcuni segmenti di consumo, in particolare abbigliamento e calzature. È il segno di una domanda che rimane selettiva: le famiglie comprano il necessario e rinviano il resto, imponendo alle imprese un salto di qualità su assortimenti, promozioni e servizi.

La lettura degli economisti: rimbalzo sì, ma fragile

Tra gli economisti prevale un ottimismo cauto. Il rimbalzo di settembre è giudicato significativo perché superiore alle attese e perché segue un agosto molto debole. Ma la diagnosi resta quella di un’industria che esce lentamente da una fase di contrazione prolungata.

Paolo Mameli, economista del Research Department di Intesa Sanpaolo, interpreta i numeri come un segnale incoraggiante ma non risolutivo. “La produzione industriale italiana è rimbalzata assai più del previsto a settembre”, osserva l’economista, ricordando però che la ripresa arriva dopo tre anni di sostanziale contrazione. La sua previsione è che il settore possa tornare a crescere in modo moderato solo nel 2026, a condizione che il contesto internazionale non peggiori e che la politica economica continui a supportare gli investimenti.

In effetti, a livello globale, la manifattura resta sotto pressione: in diversi Paesi europei gli indici dei direttori d’acquisto rimangono sotto la soglia dei 50 punti che separa espansione e contrazione. L’Italia non fa eccezione, anche se il rimbalzo di settembre mostra una capacità di tenuta migliore del previsto rispetto ai timori della scorsa primavera.

Prezzi alla produzione e costi per le imprese

Sul fronte dei prezzi alla produzione, i dati più recenti indicano un quadro solo leggermente inflazionato: ad agosto i listini industriali sono saliti su base annua di pochi decimi di punto, molto meno rispetto ai picchi raggiunti nel pieno della crisi energetica. Per le imprese questo significa margini un po’ meno schiacciati, ma non ancora un vero e proprio ritorno alla normalità.

Il calo dei costi energetici rispetto ai massimi del 2022 ha dato respiro, ma molte aziende segnalano ancora pressione sui costi di finanziamento legata ai tassi più alti, oltre a un’intensa concorrenza internazionale sui prezzi finali. In questo contesto, la possibilità di investire in tecnologie che migliorino produttività ed efficienza energetica diventa cruciale per difendere margini e posti di lavoro.

Transizione 5.0, fondi esauriti e partita politica aperta

È qui che entra in gioco il capitolo Transizione 5.0, il piano di incentivi che prevede crediti d’imposta per gli investimenti delle imprese in digitalizzazione, automazione ed efficienza energetica. La misura, pensata per il biennio 2024-2025, ha rapidamente esaurito il plafond iniziale, portando alla chiusura del portale di prenotazione e lasciando molte aziende in attesa.

Dal lato del governo, il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, ha ricordato che nella legge di bilancio sono stati previsti 4 miliardi a partire dal 2026 per rilanciare il meccanismo di sostegno. L’obiettivo dichiarato è garantire continuità agli incentivi, prorogando il piano anche nel biennio successivo e offrendo alle imprese un orizzonte temporale più lungo per programmare gli investimenti.

Il ministro assicura di essere al lavoro con il titolare dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, per individuare nuove risorse. In più occasioni Urso ha ribadito l’intenzione di “non lasciare indietro nessuna impresa”, sostenendo che gli incentivi alla transizione digitale ed ecologica siano un pilastro strategico della competitività italiana.

Le richieste delle imprese: certezza e tempi più lunghi

Dal mondo produttivo arrivano apprezzamenti per l’impostazione del piano, ma anche richieste precise. Molte aziende, in particolare le Pmi, sottolineano che il credito d’imposta è percepito come lo strumento più efficace, perché semplice da utilizzare e integrabile nella pianificazione finanziaria pluriennale.

Le associazioni d’impresa chiedono soprattutto stabilità e prevedibilità: il susseguirsi di aperture e chiusure dei portali, rimodulazioni dei plafond e modifiche delle regole rende difficile decidere se e quando avviare un investimento importante in macchinari, software o impianti per il risparmio energetico.

Non manca chi sottolinea come i settori oggi più deboli – moda, legno, carta, chimica – siano spesso quelli che avrebbero maggiore bisogno di sostegno mirato per innovare processi, prodotti e modelli di business. In assenza di incentivi stabili, il rischio è che la ripresa si concentri nei comparti già più forti, ampliando i divari interni alla manifattura.

Cosa significa il rimbalzo di settembre per il 2026

Il dato di settembre, preso da solo, non può riscrivere la storia degli ultimi anni, ma osservato nel contesto di un’economia che sta lentamente uscendo dalla fase più critica suggerisce che l’industria italiana ha ancora capacità di reazione. La combinazione di domanda estera in lieve miglioramento, normalizzazione dei prezzi energetici e incentivi agli investimenti può trasformare un rimbalzo tecnico in un trend di recupero più stabile.

Molto però dipenderà dalla velocità con cui il governo riuscirà a rendere operative le nuove risorse per la Transizione 5.0 e dalla capacità delle imprese di sfruttarle per aumentare la produttività, non solo per sostituire macchinari obsoleti. Il 2026 potrebbe essere l’anno in cui l’industria italiana torna a crescere, ma per trasformare la speranza in realtà serviranno decisioni rapide e una rotta chiara su politica industriale, fisco e utilizzo dei fondi europei.

Per ora, il messaggio che arriva da settembre è duplice: l’industria non è ferma e sa ancora sorprendere in meglio; ma senza una strategia di lungo periodo e incentivi stabili, il rischio di nuovi stop resta dietro l’angolo.

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