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Vino italiano in crisi negli Usa: 110 milioni bruciati in tre mesi

- di: Jole Rosati
 
Vino italiano in crisi negli Usa: 110 milioni bruciati in tre mesi
Vino italiano in crisi negli Usa: 110 milioni bruciati
Dazi al 15%, sconti forzati e consumi fermi: in appena tre mesi il vino italiano negli Usa ha visto svanire quasi 110 milioni di euro di fatturato. Il presidente di Unione italiana vini, Lamberto Frescobaldi, parla di “crisi da gestire” e lancia un messaggio netto alla distribuzione americana: “Nessuno pensi di lucrare sui partner, vanno riattivati i consumi calmierando i prezzi”, avverte, chiedendo regole di gioco più eque lungo tutta la filiera.

Il conto salato dei dazi: 110 milioni in tre mesi

Il terzo trimestre 2025 è diventato il simbolo della fragilità del rapporto tra vino italiano e mercato statunitense. Secondo le elaborazioni dell’Osservatorio di settore, in soli tre mesi l’export verso gli Stati Uniti ha perso quasi 110 milioni di euro rispetto allo stesso periodo del 2024, proprio mentre i dazi americani sul vino europeo sono saliti al 15% e il dollaro ha iniziato a indebolirsi.

Il meccanismo è semplice e spietato: da una parte i produttori italiani ed europei hanno assorbito una quota significativa dell’aumento dei costi tagliando i listini all’origine; dall’altra, il prezzo finale sulle scaffalature americane non è sceso in modo proporzionale. Il risultato è una sorta di “autotassazione” del comparto, come la definiscono le associazioni di categoria, che erode i margini delle imprese senza dare vera ossigeno ai consumi.

Nel solo terzo trimestre, il prezzo del vino italiano diretto verso gli Usa è stato ridotto in media di oltre il 15%, mentre per alcune etichette francesi i tagli avrebbero sfiorato il 25%. Eppure, al consumo, il prezzo medio in uscita dalla distribuzione americana è salito di altri 4-5 punti percentuali a ottobre: il segnale più evidente che parte dell’aumento derivante dai dazi Usa viene scaricato sui consumatori, nonostante gli sforzi dei produttori.

Come è cambiato il mercato Usa del vino italiano

Per capire la portata della scossa basta guardare i numeri. Fino a pochi mesi fa, il mercato statunitense era la colonna portante del nostro export: nel 2024 valeva circa il 24% del valore totale delle esportazioni vinicole italiane, con oltre 1,9 miliardi di euro movimentati tra vini fermi e spumanti. Crescita robusta, consumi dinamici, Prosecco e rossi premium protagonisti delle carte dei vini da New York a Los Angeles.

Il 2025 ha cambiato il quadro. Il primo trimestre aveva mostrato una crescita a doppia cifra, intorno al +12,5% in valore, gonfiata però dal cosiddetto frontloading: gli importatori americani hanno anticipato gli ordini per riempire i magazzini prima dell’entrata in vigore dei dazi al 15%. Un boom artificiale, destinato a sgonfiarsi rapidamente.

Dalla primavera l’inversione di tendenza è stata brutale: per l’insieme dei primi nove mesi dell’anno l’export di vino italiano negli Usa segna ormai un -4% in valore, con un crollo vicino al -23% nel solo terzo trimestre. A livello mondiale, il vino italiano si muove su un quadro meno drammatico (circa -1,9% in valore fino ad agosto), ma gli Stati Uniti risultano nettamente tra i mercati più in sofferenza.

Prezzi alle stelle, consumi in frenata

A pesare, oltre ai dazi, è la combinazione con altri due fattori: dollaro debole e consumi interni in rallentamento. Le famiglie americane, strette tra inflazione passata e tassi ancora elevati, tagliano le spese non indispensabili. Il vino – soprattutto nelle fasce di prezzo medio-alte in cui l’Italia è forte – rischia di finire tra le prime vittime della selezione nel carrello.

Tra luglio e agosto 2025, i dati dell’Osservatorio Uiv registrano un -28% in valore per le spedizioni di vino italiano verso gli Stati Uniti, nonostante i produttori abbiano ridotto i listini medi anche di un 17%. È la prova che lo sconto a monte non basta più: l’elasticità della domanda si sta indebolendo, il consumatore compra meno, sceglie bottiglie più economiche o rinvia l’acquisto.

In questo contesto, l’effetto dei dazi risulta quasi paradossale: i produttori italiani si comprimono i margini per restare competitivi, mentre alcuni segmenti della distribuzione americana mantengono o addirittura aumentano i prezzi a scaffale. Il messaggio che arriva da Roma è chiaro: serve una maggiore condivisione del sacrificio lungo la filiera, altrimenti la recessione dei consumi rischia di diventare strutturale.

L’appello di Frescobaldi al trade statunitense

Durante il Consiglio nazionale di Unione italiana vini, riunito a Roma all’inizio di dicembre, Lamberto Frescobaldi ha scelto toni decisi. “È evidente che il nostro settore sta attraversando una fase di forte tensione: in tre mesi abbiamo perso quasi 110 milioni di euro di export verso gli Stati Uniti rispetto a un anno fa. Non possiamo permetterci né allarmismi sterili né facili entusiasmi: dobbiamo gestire la crisi con lucidità”, ha spiegato il presidente di Uiv, riportando al centro il tema della responsabilità condivisa.

Il passaggio più politico riguarda però la distribuzione americana. “In questa fase nessuno può pensare di guadagnare a spese dei propri partner”, ha avvertito Frescobaldi, sottolineando che l’obiettivo prioritario deve essere riattivare i consumi, non massimizzare il margine di breve periodo. Se il prezzo continua a salire mentre le aziende europee assorbono i dazi, il rischio è un boomerang: il consumatore abbandona il vino importato, i volumi crollano e il mercato Usa perde, in prospettiva, più del Vecchio Continente.

Il ragionamento è riassunto in un dato emblematico citato dallo stesso Frescobaldi: fino a pochi mesi fa, ogni dollaro investito in vino europeo negli Usa generava circa 4,5 dollari sul mercato americano. Oggi questo moltiplicatore potrebbe ribaltarsi, con un potenziale mancato guadagno per la filiera statunitense fino a 4,5 volte superiore rispetto a quello dei produttori europei. Un avvertimento chiaro alla grande distribuzione e agli importatori: difendere nel breve i margini può significare perdere nel medio-lungo intere fasce di consumatori.

Lo scudo da 100 milioni per promozione e internazionalizzazione

Nel frattempo, il fronte italiano prova a rispondere anche sul piano politico. Nel disegno di legge di Bilancio il Governo ha inserito uno stanziamento di 100 milioni di euro l’anno per il triennio 2026-2028 destinato a promozione internazionale e internazionalizzazione delle imprese agroalimentari, con il vino indicato come comparto prioritario da Uiv e dalle altre sigle di rappresentanza.

Frescobaldi ha definito questo intervento un “segnale positivo e concreto”, a patto però che una quota significativa delle risorse sia effettivamente indirizzata al vino e che le campagne vengano pianificate con una regia forte, pubblica e privata. Tradotto: no a piogge di contributi indistinti, sì a progetti mirati sui mercati chiave – a partire dagli Stati Uniti – con azioni integrate tra promozione del brand Paese, valorizzazione delle denominazioni, formazione degli operatori e comunicazione verso i consumatori.

A questo si aggiunge il dibattito europeo sulla misura Ocm Promozione: il settore chiede di estendere da tre a dieci anni la durata dei progetti nei singoli Paesi obiettivo, proprio per avere il tempo di costruire continuità sui mercati strategici e ammortizzare gli shock come quello dei dazi.

Italia e Francia, stesso problema: margini compressi e rischio fuga dal vino europeo

Il caso italiano non è isolato. Le stesse analisi di settore mostrano che anche la Francia paga duramente i dazi Usa, con tagli ai listini all’origine che in alcuni casi superano il 20%. Le due principali potenze vinicole europee si trovano così accomunate da uno scenario inedito: quote di mercato da difendere, margini compressi, concorrenza crescente dei vini di Paesi terzi meno colpiti dalle tariffe o favoriti da cambi più favorevoli.

Il rischio, nel medio periodo, è una progressiva “fuga” dal vino europeo in alcune fasce di consumo statunitensi, sostituite da etichette di altri Paesi capaci di presentarsi allo scaffale con prezzi più bassi. Non è un caso che le associazioni di categoria italiane chiedano con forza che il capitolo vino torni al centro del negoziato commerciale tra Washington e Bruxelles, puntando almeno a un alleggerimento delle tariffe o a meccanismi compensativi più efficaci.

Strategie di sopravvivenza: meno sconti, più valore

La domanda cruciale per i produttori italiani è semplice: come restare competitivi negli Usa senza continuare a bruciare margini? L’orientamento che emerge dalle analisi dei consorzi e delle imprese più strutturate è netto: ridurre la guerra dei prezzi e spingere sul valore.

In concreto, le aziende stanno lavorando su diverse leve:

  • Segmentazione dell’offerta: razionalizzazione delle gamme, con meno etichette “fotocopia” e maggiore chiarezza tra entry level, fascia media e vini di punta.
  • Riposizionamento selettivo: invece di ridurre i prezzi in modo indiscriminato, alcune cantine preferiscono concentrare lo sforzo su etichette strategiche, mantenendo la redditività su quelle ad alto valore aggiunto.
  • Accordi più stretti con gli importatori: contratti che prevedono condivisione delle campagne promozionali e maggiore trasparenza su margini e politiche di prezzo lungo la filiera.
  • Investimenti sul brand territoriale: spinta su denominazioni riconoscibili (Prosecco, Chianti Classico, Barolo, Amarone, Franciacorta) per giustificare prezzi coerenti con la percezione di qualità.
  • Formazione degli operatori: corsi, degustazioni e iniziative dedicate a sommelier, ristoratori e buyer per rendere più “forti” le etichette italiane nei momenti di scelta.

La logica è chiara: se la competizione si gioca solo sul prezzo, in un contesto di dazi al 15% e dollaro debole, il vino italiano rischia di uscire sconfitto. Se invece la partita si sposta su valore percepito, qualità e storytelling, l’Italia può ancora difendere – e in alcuni segmenti persino rafforzare – il proprio posizionamento.

Oltre gli Stati Uniti: diversificare senza abbandonare il mercato chiave

Un altro pilastro della strategia che il settore sta costruendo è la diversificazione dei mercati. Germania, Regno Unito, Canada e Francia mostrano dinamiche diversificate, con alcuni segnali di tenuta o di crescita in controtendenza rispetto agli Usa. Allo stesso tempo, l’interesse per Asia e Sudamerica spinge molte cantine ad accelerare sui mercati emergenti.

La parola d’ordine, però, resta prudenza: nessun mercato, da solo, può sostituire nel breve periodo il ruolo degli Stati Uniti per il vino italiano. L’obiettivo realistico è distribuire meglio i rischi, evitando che un singolo shock – come quello dei dazi – metta in crisi l’intera struttura dell’export. La sfida è tenere il piede ben saldo negli Usa, mentre si aprono nuove strade altrove.

Prospettive fino al 2026: tre scenari per il vino italiano negli Usa

Guardando ai prossimi diciotto mesi, gli analisti delineano tre scenari possibili per il rapporto tra vino italiano e mercato statunitense:

  • Scenario di stallo: i dazi restano al 15%, i consumi americani non ripartono davvero e il calo dell’export italiano si stabilizza su livelli negativi ma gestibili, con una lenta erosione delle quote di mercato.
  • Scenario di peggioramento: nuove frizioni commerciali o un ulteriore indebolimento del dollaro spingono verso un’ulteriore contrazione dei volumi; in questo caso, molte piccole e medie cantine rischiano di abbandonare il mercato Usa per mancanza di sostenibilità economica.
  • Scenario di allentamento: la diplomazia commerciale tra Usa e Ue trova un compromesso sui dazi wine & spirits e parte delle tariffe viene ridotta o sospesa; con il supporto dei fondi per la promozione e strategie più mirate, l’Italia potrebbe recuperare gradualmente terreno entro il 2026.

Quale che sia lo sbocco, una cosa è certa: il tempo dell’inerzia è finito. Il settore ha già iniziato a muoversi, tra piani di promozione straordinari, ripensamento dei portafogli prodotti e nuove alleanze con la distribuzione. Ma senza una maggiore corresponsabilità del trade americano e un chiaro segnale politico sul fronte dei dazi, la “ferita” da 110 milioni rischia di non essere l’ultima.

Per il vino italiano, il mercato Usa resta il palcoscenico decisivo. La partita non è chiusa, ma si gioca ora, e si gioca su un equilibrio delicato fra prezzo, valore e visione. Chi continuerà a ragionare solo in termini di promozioni e sconti rischia di uscire di scena. Chi saprà investire su marca, territorio e qualità, pur nel pieno della tempesta, potrebbe ritrovarsi – alla fine – in una posizione più forte di prima.

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