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Eurostat, i redditi italiani ancora sotto i livelli del 2008

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Eurostat, i redditi italiani ancora sotto i livelli del 2008

Ci sono numeri che raccontano più di mille discorsi politici. E quelli diffusi da Eurostat sono tra questi: a quasi vent’anni dalla grande crisi, l’Italia non è ancora tornata ai livelli di reddito reale del 2008. Fatto 100 il valore dei redditi lordi reali disponibili di quell’anno, il nostro Paese è fermo a 95,97, mentre la Germania è a 116,2, la Francia a 113,94, la Spagna a 103,94. È un grafico che parla chiaro: l’Italia è l’unica grande economia europea che non ha recuperato terreno. Anzi, continua a scivolare un po’ più indietro ogni anno, come un corridore che non trova la pista giusta per ripartire.

Eurostat, i redditi italiani ancora sotto i livelli del 2008

Eppure il dibattito pubblico scorre altrove. Nei talk show e nei social network si discutono i grandi principi – la giustizia, l’immigrazione, la geopolitica – ma raramente si tocca la questione che più incide sulla vita quotidiana: il reddito reale degli italiani. La crescita resta fragile, anemica, fatta di piccoli rimbalzi più che di scatti veri. Il governo tiene il bilancio in ordine, e questo è un merito; ma un Paese non vive di contabilità, vive di crescita.

I salari, nonostante gli ultimi rinnovi contrattuali, restano inchiodati. Le famiglie programmano meno, i consumi ristagnano, la fiducia resta appannata. Non è solo un problema economico: è anche un problema psicologico. L’Italia, in fondo, ha perso un po’ di fiducia in sé stessa.

La falsa ricetta dei salari bassi

C’è un’idea, antica e sbagliata, che continua a serpeggiare nel nostro modello economico: che per essere competitivi bisogna pagare di meno. È la scorciatoia che negli anni Ottanta e Novanta sembrava sensata, ma che oggi è diventata un vicolo cieco. I salari bassi non attraggono investimenti, non stimolano consumi, non generano innovazione. È un gioco a perdere che riduce la produttività invece di aumentarla.

La produttività, infatti, è rimasta inchiodata da due decenni. Il lavoro italiano produce meno valore per ora rispetto a quello francese, tedesco o olandese. Non perché gli italiani lavorino meno – anzi, in molte categorie lavorano di più – ma perché il sistema nel suo complesso non investe in tecnologie, formazione e organizzazione.

Nel libro appena uscito per Marsilio, Sveglia, Pietro Senaldi e Giorgio Merli lo spiegano senza giri di parole: «Abbiamo puntato sulle leve sbagliate per l’aumento della produttività». Quella cultura dell’efficienza nata nel dopoguerra – produrre tanto spendendo poco – poteva andar bene in un’epoca di ricostruzione. Ma oggi, in un mercato saturo e competitivo, non basta. “Aumentare l’efficienza – scrivono – ha solo incrementato i margini delle imprese, non la capacità innovativa del Paese”.

Un Paese che si difende invece di creare
L’Italia ha costruito per anni la propria strategia economica sulla difesa: difendere i conti, difendere l’occupazione, difendere l’esistente. Ma la difesa non genera crescita. Si è preferito limare i costi anziché alzare la qualità. E quando un sistema si accontenta di produrre a basso costo, rinuncia anche a produrre valore.

Il risultato è un Paese che si arrangia: piccole imprese che vivono di margini sottili, giovani che accettano stipendi bassi pur di lavorare, industrie che si rassegnano a essere fornitrici di filiere estere. È l’Italia che non osa. E senza rischio non c’è progresso.

Eppure, il capitale umano non manca. Ci sono energie imprenditoriali, ricerca di qualità, start-up che si muovono con coraggio. Ma manca un ecosistema che le sostenga davvero. Manca la fiducia strutturale nello sviluppo. L’idea, tutta italiana, che la moderazione salariale sia una virtù ha finito per diventare una zavorra.

La via alta della produttività
Essere competitivi oggi significa puntare su valore aggiunto, tecnologia, ricerca, sostenibilità. Non si compete sul prezzo, ma sull’intelligenza del prodotto e sulla capacità di innovare i processi. La produttività si misura nella qualità della crescita, non nel numero delle ore lavorate.

È qui che il Paese deve cambiare passo. La Transizione 5.0, con gli incentivi agli investimenti digitali e alla sostenibilità, potrebbe rappresentare il punto di svolta. Ma non sarà sufficiente se non si accompagna a una riforma culturale: abbandonare l’idea del “fare con meno” e abbracciare quella del “fare meglio”.

Servono investimenti veri in formazione, ricerca, tecnologie pulite e digitalizzazione. Serve una politica industriale che premi chi innova, non solo chi risparmia. Solo così il lavoro potrà tornare a generare valore, e i salari potranno crescere non per decreto, ma perché il sistema produce di più e meglio.

La speranza (e la responsabilità) del presente
Il tempo dei piccoli aggiustamenti è finito. O l’Italia sceglie di compiere il salto della produttività, o resterà schiacciata tra chi produce a basso costo e chi innova ad alta intensità. È la zona grigia della mediocrità, dove si sopravvive ma non si cresce.

Per anni abbiamo creduto che bastasse la serietà contabile per salvarci. Oggi serve la creatività economica, quella che nasce da un’alleanza nuova tra imprese, lavoratori e Stato. Un patto che restituisca dignità al lavoro e valore alla produzione.

I numeri di Eurostat non sono solo statistiche: sono un campanello d’allarme. Un Paese che ha i redditi più bassi d’Europa non può continuare a consolarsi con le percentuali del Pil trimestrale. La vera crescita è quella che entra nelle case, che riaccende la fiducia e che dà a ciascuno la sensazione di contare di più.

Per riuscirci serve un salto collettivo: culturale prima che economico. È il salto della produttività intelligente, che non si misura nei bilanci ma nella capacità di un Paese di credere, finalmente, che il futuro non è un lusso – è un dovere.

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