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Extraprofitti, perché il settore bancario chiede chiarezza: il rischio non è fiscale ma di stabilità

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Extraprofitti, perché il settore bancario chiede chiarezza: il rischio non è fiscale ma di stabilità

Il confronto politico sulla “tassa che non si chiama tassa” sta oscurando il punto centrale: la redditività record delle banche negli ultimi due esercizi non è un’anomalia speculativa, ma l’effetto dell’aggiustamento monetario deciso dalla Bce. Per questo gli istituti sostengono che un prelievo rigido, oggi, sarebbe tecnicamente pro-ciclico: arriverebbe proprio alla vigilia della normalizzazione dei margini e quando il credito dovrà sostenere l’economia reale.

Extraprofitti, perché il settore bancario chiede chiarezza: il rischio non è fiscale ma di stabilità

Le banche non contestano l’idea di contribuire allo sforzo pubblico; contestano l’assenza di cornice stabile. La logica: una tassazione “politica” e non “regolata” rende più incerta la pianificazione patrimoniale e irrigidisce il canale del credito.

L’impatto vero non è sull’utile, ma sul CET1

Anche un prelievo apparentemente contenuto, se formalizzato come tassa, erode capitale. E per ogni punto di capitale assorbito, la banca deve scegliere se rallentare l’erogazione di prestiti o ridurre acquisti di Btp. È questo il motivo per cui il settore chiede che l’eventuale contributo sia configurato come incentivo a patrimonializzazione o investimenti domestici: incide meno e non indebolisce la capacità di funding.

In un Paese ad alto debito come l’Italia, la tenuta delle banche non è neutrale: è direttamente connessa ai rendimenti del Tesoro.

Perché la politica ha bisogno di elasticità
La “formula contributo” – criticata per ambiguità – è in realtà il modo con cui il governo tenta di evitare uno shock regolatorio. Una tassa netta sarebbe materia da contenziosi europei (aiuto di Stato negativo, imposta selettiva) e finirebbe sotto esame della Bce. La via morbida consente invece un accordo con il settore, senza scontro istituzionale.

Margini destinati a ridursi
Gli extraprofitti che oggi alimentano il dibattito sono già fisiologicamente in discesa: con il ciclo dei tassi in inversione, il Net Interest Income tornerà su livelli ordinari nel 2026. Tassare gli utili nel picco, con aliquota fissa, significherebbe introdurre un onere che diventa strutturale anche quando gli utili non lo sono più. In prospettiva sarebbe la Pmi – non la banca – a pagarne il costo, tramite credito più selettivo o più caro.

Perché i mercati osservano con attenzione
Lo spread resta stabile anche perché il circuito banca–Btp funziona. Una tassa punitiva indebolirebbe i bilanci proprio mentre le banche italiane sono tornate centrali nella sottoscrizione del debito sovrano. Non è un tecnicismo: senza un settore bancario solido, i rendimenti salirebbero immediatamente, erodendo ogni beneficio fiscale della tassa stessa. Il sistema pagherebbe due volte.

Il compromesso più probabile
Il modello che prende forma è quello di contributo reinvestito: risorse destinate a patrimonializzare, finanziare innovazione e credito a Pmi, invece che finire nel bilancio pubblico come entrata “pura”. In questo schema, il beneficio per lo Stato è indiretto ma più duraturo: stabilità di mercato, canale del credito aperto e supporto alla domanda.
Per il settore bancario è la garanzia che l’intervento non diventa un precedente normativo punitivo.

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