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OpenAI verso 750 miliardi: il prezzo della corsa all’AI

- di: Vittorio Massi
 
OpenAI verso 750 miliardi: il prezzo della corsa all’AI
OpenAI verso 750 miliardi: il prezzo della corsa all’AI
Tra maxi-round, chip e data center: perché la valutazione vola e cosa rischia.
 
(Foto: Sam Altman, Ceo di OpenAI).

Quando una società finisce al centro dell’attenzione globale, spesso non è solo per i suoi prodotti: è per la catena industriale che si porta dietro. Nel caso di OpenAI, l’azienda che ha trasformato ChatGPT in un fenomeno di massa, i riflettori oggi puntano su un numero che fa girare la testa: circa 750 miliardi di dollari di valutazione, in discussioni preliminari legate a una nuova raccolta di capitali. E, come se non bastasse, in parallelo circolano stime ancora più alte.

La cifra che accende il dibattito

Secondo ricostruzioni riportate dalla stampa economico-finanziaria internazionale, OpenAI avrebbe avviato conversazioni esplorative per raccogliere decine di miliardi (con un’ipotesi massima fino a 100 miliardi) a una valutazione nell’ordine dei 750 miliardi. Il dettaglio cruciale è che non si parla di un “prezzo ufficiale” già fissato: si tratta di trattative e di un perimetro in evoluzione, tipico dei round giganteschi in cui entrano in gioco fondi sovrani, grandi gestori e partner industriali.

In più, a complicare (o rendere più frizzante) la lettura del numero, si è aggiunta un’altra indiscrezione: un possibile obiettivo di valutazione fino a circa 830 miliardi nel nuovo round. Due livelli diversi, stesso messaggio: la partita non è “se” OpenAI valga tanto, ma quanto in alto si spingerà l’asticella e a quali condizioni.

Da 500 a 750: l’accelerazione è recente

Per capire perché il mercato stia facendo scatti da centometrista, basta guardare lo storico più vicino. A inizio ottobre 2025 OpenAI è stata associata a una valutazione di circa 500 miliardi dopo un’operazione di vendita di azioni da parte di dipendenti ed ex dipendenti (un classico “tender” che spesso diventa bussola per i round successivi). Se l’ordine di grandezza dei 750 miliardi si concretizzasse davvero, si tratterebbe di un salto notevole in pochi mesi: non un ritocco, ma un cambio di marcia.

È anche il segnale di un punto di svolta: l’AI generativa sta diventando un’infrastruttura economica, non più un “giocattolo da demo”. Il mercato, insomma, non sta pagando solo il chatbot: sta pagando la capacità di produrre modelli, distribuirli su scala planetaria e garantirne l’evoluzione a ritmo serrato.

Perché servono così tanti soldi: il conto di chip, energia e data center

Il cuore della storia è brutale nella sua semplicità: l’AI costa. E costa soprattutto in calcolo, cioè chip, energia e data center. La nuova fase della competizione si gioca su chi riesce a garantirsi più capacità computazionale, più a lungo e a prezzi sostenibili.

Qui entra in scena la strategia industriale di OpenAI, raccontata anche attraverso iniziative e accordi con grandi attori dell’infrastruttura. L’azienda ha annunciato e aggiornato piani legati a “Stargate”, una piattaforma/visione di lungo periodo per espandere capacità di data center, con partnership che coinvolgono anche Oracle e (in alcuni passaggi) SoftBank. In una nota ufficiale, OpenAI ha indicato un accordo con Oracle per sviluppare 4,5 gigawatt aggiuntivi di capacità di data center negli Stati Uniti. In un altro aggiornamento pubblico, OpenAI ha parlato di nuovi siti per accelerare l’obiettivo di una capacità complessiva molto ampia.

Tradotto: se vuoi modelli più potenti e diffusi, non basta “assumere ricercatori”. Devi prenotare elettricità e silicio come se stessi costruendo una rete ferroviaria. Da qui la logica del maxi-round: capitali enormi non per marketing, ma per la fabbrica dell’AI.

La geopolitica dell’infrastruttura: Microsoft, Oracle, Nvidia… e Amazon

Un’altra ragione per cui la valutazione si è trasformata in un tema “da prima pagina” è la rete di alleanze (e contro-alleanze) che si muove intorno a OpenAI.

Microsoft resta un perno: secondo ricostruzioni riportate da Reuters, la società di Redmond deterrebbe una quota importante (nell’ordine del 27%) e avrebbe diritti rilevanti legati alla distribuzione dei modelli ai clienti cloud. Nello stesso perimetro si inserisce la ristrutturazione societaria che ha portato OpenAI verso una forma di public benefit corporation, elemento che mira a rendere più gestibile la raccolta di capitali su larga scala senza perdere la narrativa di missione.

Oracle è invece una leva infrastrutturale: l’idea di una filiera del calcolo alternativa (o almeno non dipendente da un solo fornitore) è diventata una necessità strategica. Ed è qui che il discorso si fa “da guerra dei chip”.

Nvidia è il nome che spunta ogni volta che si parla di acceleratori per AI: Reuters ha riportato un accordo che includerebbe un impegno di investimento fino a 100 miliardi e forniture di chip, un intreccio in cui il fornitore dell’hardware diventa anche parte della storia finanziaria.

E poi c’è la voce più nuova: Amazon. Negli ultimi giorni, sempre secondo Reuters e Financial Times, Amazon sarebbe in colloqui per un investimento nell’ordine dei 10 miliardi (o più), con un possibile asse legato anche all’utilizzo dei chip Trainium e a capacità cloud. Anche qui, non è solo un investimento: è un modo per legare capex e modelli in un patto industriale.

Valutazione record: merito del business o “premio da corsa”?

Quando una società viaggia su multipli giganteschi, il dibattito si polarizza: genio o bolla? La verità è che l’AI oggi è un settore in cui le metriche tradizionali faticano a stare in piedi. Da un lato c’è la crescita di utenti e ricavi, dall’altro c’è un costo strutturale enorme per addestrare e far girare modelli sempre più sofisticati.

Le valutazioni “monstre” incorporano due scommesse simultanee:

  • Domanda stabile e crescente: aziende e pubbliche amministrazioni integrano l’AI nei processi in modo permanente.
  • Difendibilità: OpenAI riesce a mantenere un vantaggio tecnologico e di prodotto, nonostante la concorrenza di Big Tech e nuovi player.

Chi è più prudente, invece, guarda al rischio “tassa sull’infrastruttura”: se ogni salto di qualità richiede investimenti colossali, allora la domanda diventa se i margini futuri basteranno a ripagare una filiera così costosa.

La pista dell’IPO: l’orizzonte (non immediato) che cambia tutto

Nel retroscena c’è un’altra parola chiave: quotazione. Reuters ha riferito che OpenAI starebbe preparando il terreno per una possibile IPO, con un’ipotesi di tempi che guarderebbe alla seconda metà del 2026 per un eventuale deposito dei documenti, e con aspettative di mercato che in alcuni scenari arrivano a evocare persino la soglia del trilione.

Qui la valutazione a 750 (o 830) diventa anche un messaggio: costruire una “scala” credibile di prezzi prima della Borsa, mostrando che la domanda di capitale e la domanda di partecipazione restano altissime. Ma un’IPO di questo tipo avrebbe un effetto collaterale inevitabile: trasparenza. E la trasparenza, nel mondo AI, significa numeri su ricavi, costi di calcolo, contratti di fornitura e sostenibilità dei margini.

Che cosa può far deragliare la corsa

Nonostante l’entusiasmo, ci sono fattori che potrebbero raffreddare la spinta:

  • Vincoli energetici: data center e potenza elettrica sono ormai un collo di bottiglia reale, non teorico.
  • Dipendenza dai chip: la disponibilità di acceleratori e la volatilità dei prezzi possono incidere sui piani.
  • Regole e antitrust: quando fornitori e investitori coincidono, aumentano le attenzioni dei regolatori.
  • Concorrenza: se le alternative (open source o Big Tech) comprimono i prezzi, la crescita di ricavi potrebbe non tenere il passo dei costi.

In altre parole: i 750 miliardi non sono un trofeo appeso al muro. Sono una scommessa su un futuro in cui OpenAI resta centrale e riesce a trasformare l’AI in un business sostenibile, non solo in una meraviglia tecnologica.

Il punto

La domanda “Quanto vale OpenAI?” oggi ha una risposta doppia: vale quanto il mercato crede che possa diventare indispensabile e vale quanto costerà costruire l’infrastruttura per restare davanti. Il numero dei 750 miliardi — e l’eco di stime persino superiori — racconta una fase in cui l’AI non si finanzia più come un software, ma come un’industria pesante: con contratti pluriennali, gigawatt, chip e capitali fuori scala.

Se il maxi-round si concretizzerà, non sarà solo un record. Sarà un segnale: l’AI è entrata nella sua età delle grandi opere. E adesso la vera sfida è dimostrare che quelle opere produrranno abbastanza valore da giustificare il prezzo del biglietto.

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