Saltata la jv da 1.900 miliardi, Trieste ricalibra l’asset management mentre il risiko Mps-Mediobanca e l’inchiesta di Milano ridisegnano i rapporti di forza.
(Foto: La sede centrale delle Assicurazioni Generali a Trieste).
Un addio già scritto, ma con una morale tutta italiana
Il consiglio di amministrazione di Generali che, nelle intenzioni iniziali, avrebbe dovuto mettere il sigillo finale al matrimonio con Natixis,
si è trasformato in un’altra cosa: una presa d’atto. La partita era, di fatto, già chiusa da giorni.
L’11 dicembre 2025 Generali e BPCE (la casa madre di Natixis Investment Managers) hanno comunicato di aver interrotto le consultazioni
perché non c’erano più le condizioni per arrivare a un accordo definitivo.
Tradotto: nessuna joint venture, nessun “campione europeo” del risparmio gestito. E soprattutto nessun modo semplice per rendere “politicamente e societariamente”
digeribile un asse transfrontaliero in un settore che, in Italia, viene ormai trattato come asset strategico.
Che cosa prevedeva la jv (e perché pesava così tanto)
Il progetto era ambizioso e numericamente impressionante: un operatore con circa 1.900 miliardi di euro di masse,
costruito mettendo insieme Generali Investments e Natixis Investment Managers, con governance paritetica 50 e 50.
Secondo i dettagli resi noti al momento del memorandum, la società avrebbe avuto sede ad Amsterdam e una regia condivisa:
BPCE con la presidenza, Generali con la vice-presidenza, e una guida manageriale affidata a Woody Bradford.
Anche la logica industriale era chiara: margini sotto pressione, tecnologia sempre più costosa, necessità di scala e distribuzione.
E Generali aveva messo sul tavolo un tema cruciale per l’asset management moderno: il seed capital per “accendere” nuovi prodotti.
Sul piano delle masse, le cifre circolate nel percorso preparatorio parlavano di un contributo di Generali Investments Holding intorno ai 650 miliardi,
mentre Natixis portava una dote superiore (nell’ordine di oltre 1.200-1.300 miliardi, a seconda delle rilevazioni temporali).
Il nodo vero: soci forti, golden power e “sicurezza” del risparmio
Se la finanza vedeva una scorciatoia verso la scala europea, la politica e una parte del capitale la leggevano come un’operazione “sensibile”.
In Italia, infatti, l’operazione avrebbe potuto incrociare la golden power sulle attività considerate strategiche,
e la trattativa si è trovata a camminare su un terreno minato.
A questo si è sommato il fattore domestico: i soci forti. Delfin e il gruppo Caltagirone, già da tempo critici
su impianto e pesi dell’intesa, volevano evitare che la leva francese diventasse troppo influente nella nuova macchina.
Il risultato è un paradosso tipicamente italiano: l’idea di costruire un gigante europeo si è arenata non su un dettaglio tecnico,
ma su una combinazione di equilibri di potere, sensibilità politica e timori di governance.
Donnet e Sironi restano al centro, ma la scena si è affollata
La rottura con Natixis non implica automaticamente un terremoto nella stanza dei bottoni.
Al contrario, la lettura prevalente tra gli osservatori è che, almeno nel breve, la governance possa restare stabile:
Philippe Donnet e Andrea Sironi non risultano “sfiduciati” dall’archiviazione del dossier.
Il vero cambio è nel contesto: oggi il vertice deve muoversi in un perimetro più stretto, con un azionariato che vuole contare di più
e un Paese che ha alzato l’asticella sulla “sovranità” del risparmio.
In pratica: non basta più avere una buona idea industriale. Serve anche una coalizione che la sostenga.
Il dopo Natixis: crescita sì, ma con un “via libera” preventivo
Chiudere Natixis non significa chiudere il tema: Generali vuole crescere nell’asset management, perché è una leva
che stabilizza ricavi e margini rispetto al solo business assicurativo. La holding di investimenti del gruppo, inoltre,
ha ribadito nel tempo la propria capacità di espandersi anche via acquisizioni mirate e piattaforme specialistiche.
(Fonte: comunicazioni Generali Investments su operazioni e dimensioni, ottobre 2025.
Ma la lezione è netta: qualunque opzione di consolidamento, da qui in avanti, dovrà essere compatibile con tre filtri:
azionisti, regole, clima politico. In caso contrario, si ripete lo stesso film.
Il vero vortice: l’asse Mps-Mediobanca e l’effetto su Generali
Nel frattempo, la cronaca ha spostato il baricentro: il dossier che “assorbe ossigeno” al mercato non è più Natixis,
ma il risiko bancario che passa da Mps e Mediobanca e rimbalza su Generali.
Il punto politico-finanziario è che Mediobanca è storicamente un perno della partita su Trieste,
e l’operazione Mps-Mediobanca ha riaperto una stagione di intrecci, conflitti percepiti e nervi scoperti.
L’inchiesta di Milano e l’ombra del “concerto”
A rendere ancora più delicata la geometria c’è l’inchiesta della Procura di Milano che guarda all’ipotesi di un’azione coordinata
(il cosiddetto “concerto”) fra grandi azionisti e management nel percorso che ha portato Mps a muoversi su Mediobanca.
Nelle ricostruzioni giornalistiche internazionali, l’indagine coinvolge l’amministratore delegato di Mps Luigi Lovaglio
e i principali azionisti privati, con accertamenti su eventuali obblighi informativi verso mercato e autorità.
Sul fronte politico, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha respinto pubblicamente l’idea di interferenze
e ha espresso fiducia nel ceo di Mps, rivendicando un ruolo istituzionale orientato alla stabilità della banca.
E dal lato degli azionisti è arrivata una mossa che vale più di mille smentite: il gruppo Caltagirone ha annunciato un rafforzamento
delle procedure di governance sulle partecipazioni in Mps e Generali, con la rinuncia del presidente Caltagirone ai poteri delegati di voto
nelle assemblee e un percorso decisionale più “tracciabile”, passando per consiglieri indipendenti e, se necessario, advisor esterni.
Che cosa aspettarsi adesso
In superficie, Generali archivia un dossier. In profondità, entra in una fase in cui ogni mossa strategica dovrà essere letta su due piani:
industriale (come crescere nel risparmio gestito) e politico-azionario (con chi e a quali condizioni).
Per Trieste la priorità è evitare che la fine del progetto Natixis venga interpretata come un passo indietro:
l’asset management resta una direttrice, ma sarà perseguita con formule più compatibili con il nuovo perimetro di consenso.
Per il mercato, invece, la domanda è un’altra: quanto l’intreccio Mps-Mediobanca, tra assemblee future e sviluppi giudiziari,
continuerà a “condizionare” indirettamente anche il destino di Generali, cioè il vero trofeo simbolico del sistema.