Il nuovo studio della prof.ssa Alessandra Bonfiglioli, pubblicato sul pregiato network lavoce.info, mostra come l’intelligenza artificiale abbia frenato la crescita dell’occupazione statunitense, penalizzando i lavoratori senza laurea e ridisegnando il mercato del lavoro con una polarizzazione ormai strutturale.
Il dibattito globale sul lavoro e sull’intelligenza artificiale è spesso dominato da slogan, entusiasmi e paure. Il merito del lavoro firmato dalla prof.ssa Alessandra Bonfiglioli su lavoce.info è proprio quello di riportare la discussione alla concretezza dei dati: vent’anni di trasformazioni reali, tracciate nell’economia più avanzata del mondo. E una conclusione che pesa come un macigno: l’IA, così come è stata introdotta negli Stati Uniti negli ultimi due decenni, ha effettivamente rallentato la crescita dell’occupazione.
Il dato, chiarisce la prof. Bonfiglioli, è frutto di un’analisi sistematica su 722 aree di pendolarismo americane tra il 2000 e il 2020. Una base empirica così ampia da togliere ogni alibi retorico a chi minimizza gli effetti dell’automazione. “Le zone più esposte all’IA hanno visto crescere meno l’occupazione”, ribadisce la studiosa, spiegando come questo rallentamento non sia diffuso in modo uniforme, ma colpisca con precisione chirurgica i lavoratori più fragili.
Dietro questo risultato c’è un filo conduttore semplice ma decisivo: l’intelligenza artificiale non si limita a sostituire il lavoro umano, come avveniva nelle automazioni industriali del Novecento. Piuttosto, premia alcune competenze e ne svaluta altre. E in questa riorganizzazione silenziosa del mercato del lavoro si crea una frattura nuova, diversa dalle precedenti rivoluzioni tecnologiche.
Misurare l’IA attraverso le persone, non le macchine
La prof.ssa Bonfiglioli dedica una parte importante del suo studio a un punto spesso trascurato: come si misura l’adozione dell’IA? L’approccio più intuitivo — contare investimenti, brevetti o software installati — non funziona in un settore dove l’uso reale delle tecnologie varia in modo enorme da territorio a territorio e da impresa a impresa.
Per questo la ricerca sceglie un’ottica diversa, più robusta: misurare l’IA attraverso la crescita delle professioni che la utilizzano. Un criterio umano, non tecnico. E per farlo si parte dal database ONET, che mappa 867 professioni e le relative competenze. L’analisi individua 54 software chiave — strumenti di data analysis, programmazione, machine learning — e osserva in quali aree aumenta la percentuale di lavoratori che li usano.
È un metodo che, come sottolinea l’articolo su lavoce.info, consente di distinguere tra territori che “acquistano” tecnologia e territori che la sanno davvero applicare. E i risultati sono illuminanti: le competenze IA si concentrano in aree già ricche e dinamiche, mentre molte regioni a vocazione manifatturiera restano ai margini, incapaci di attrarre i nuovi profili.
Boston, Seattle e la Silicon Valley sono i poli naturali, ma la prof.ssa Bonfiglioli individua anche una geografia in trasformazione: Boulder, Bozeman, Salt Lake City. Centri di innovazione che negli ultimi vent’anni hanno costruito ecosistemi tecnologici completi, capaci di competere con i colossi storici. È in questi luoghi che l’IA diventa lavoro vero, prodotti nuovi e modelli di impresa più radicali.
L’occupazione frena: chi perde e chi guadagna
Una volta misurata la diffusione dell’IA, la ricerca affronta la questione cruciale: che cosa accade all’occupazione? E qui Bonfiglioli non lascia spazio alle interpretazioni: senza IA, il tasso di occupazione americano sarebbe stato più alto di circa 0,6 punti percentuali. Un numero apparentemente piccolo, che su vent’anni produce effetti enormi.
La frenata è tuttavia selettiva. Colpisce i lavoratori senza laurea, in particolare quelli impiegati nei servizi più tradizionali e nelle mansioni di routine, vulnerabili perché più facilmente automatizzabili. Al contrario, chi ha competenze tecnico-scientifiche regge l’urto dell’innovazione, e in alcuni casi beneficia della crescita dei settori legati all’IA.
Il dato forse più sorprendente riguarda il manifatturiero. Pur essendo uno dei comparti dove l’IA è meno diffusa, è proprio qui che si concentra quasi metà della riduzione occupazionale. Una contraddizione solo apparente: come chiarisce l’articolo della prof.ssa Bonfiglioli, gli effetti indiretti dell’automazione digitale — nelle forniture, nei servizi, nella logistica — riplasmano l’intera catena del valore, comprimendo i ruoli meno qualificati.
Il risultato finale, sottolinea con forza la studiosa, è un mercato del lavoro polarizzato: in alto crescono i profili altamente formati; in basso scivolano i lavoratori con competenze standardizzabili. La classe media del lavoro tecnico-amministrativo, un tempo pilastro dell’economia americana, mostra segni evidenti di erosione.
Dalla vecchia IA alla Generative AI: il conto lo pagano i giovani
Il lavoro pubblicato su lavoce.info compie poi un passo ulteriore: collega la fase “classica” dell’IA agli effetti più recenti dei modelli generativi, come ChatGPT. E il quadro diventa ancora più nitido. Gli studi citati dalla prof. Bonfiglioli mostrano che la Generative AI ha già colpito i lavoratori tra i 22 e i 25 anni e i ruoli junior, ossia esattamente le fasce più esposte della forza lavoro.
Non solo: l’impatto sui profili senior è nullo. E questo perché la Generative AI accelera attività cognitive ripetitive, spesso affidate a chi è all’inizio della carriera. Un effetto che rischia di rallentare l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro proprio mentre il ricambio generazionale diventa essenziale per la competitività.
Di fatto, emerge un doppio paradosso. Da un lato, si teme che l’IA “rubI il lavoro”; dall’altro, nota la prof.ssa Bonfiglioli, ciò che sta avvenendo nei dati è diverso: l’IA modifica la distribuzione del lavoro più che la sua quantità totale. E in questa redistribuzione, i giovani e i lavoratori meno qualificati stanno diventando gli anelli più fragili.
La lezioni per la politica: formazione, incentivi e coraggio
Il lavoro della prof.ssa Bonfiglioli, pur rigorosamente ancorato ai dati, arriva a una conclusione politica chiara. L’intelligenza artificiale può essere una straordinaria opportunità, ma solo se gestita con una strategia mirata e coraggiosa. La studiosa propone una doppia linea d’azione.
La prima è la più urgente: investire in modo massiccio nella riqualificazione della forza lavoro. Non programmi simbolici, ma percorsi strutturali che includano proprio i lavoratori più esposti: addetti ai servizi, operatori logistici, ruoli amministrativi, profili a rischio automatizzazione.
La seconda riguarda la direzione dell’innovazione: incentivare le applicazioni dell’IA che potenziano il lavoro umano anziché sostituirlo. Questo significa premi fiscali, fondi mirati e politiche industriali che spingano le imprese a innovare migliorando competenze, processi e produttività del lavoro — non riducendo organici.
È un tema che riguarda da vicino anche l’Europa e l’Italia. Mentre Bruxelles discute normative e controlli, gli Stati Uniti mostrano già gli effetti concreti della trasformazione. E la lezione, sottolinea la prof.ssa Bonfiglioli, è inequivocabile: senza una strategia sulle competenze, l’IA amplifica le disuguaglianze e si trasforma in un acceleratore di fratture sociali.
Una conclusione che chiama alla responsabilità
Il contributo della prof.ssa Bonfiglioli su lavoce.info non è un esercizio accademico. È un avvertimento lungimirante: l’intelligenza artificiale non è destino, ma direzione. E la direzione dipende da come le società scelgono di governarla.
Gli Stati Uniti, analizzati con rara profondità, mostrano che l’IA non crea disoccupazione di massa, ma cambia gli equilibri interni del lavoro. Chi è in alto sale ancora. Chi è al centro rischia di scivolare verso il basso. Chi è ai margini fatica sempre più a rientrare.
Per questo, conclude la prof.ssa Bonfiglioli, la sfida non è temere o idolatrare l’IA, ma capirla e orientarla. È lo snodo decisivo per garantire che la nuova rivoluzione tecnologica non lasci indietro milioni di lavoratori, ma diventi un motore di crescita equilibrata, inclusiva e sostenibile.