Sempre più spesso, quando si parla di competitività, si parla anche di biodiversità. Non è più un tema per naturalisti o accademie: è una variabile economica, una condizione per la continuità dei servizi ecosistemici che sostengono la vita quotidiana e, di conseguenza, i sistemi produttivi. Dalla purificazione dell’acqua alla regolazione del clima, dalla prevenzione del dissesto geologico alla sicurezza alimentare, gli ecosistemi forniscono prestazioni che valgono miliardi e che le imprese non possono più ignorare.
Imprese e biodiversità, il grande ritardo italiano: meno di un terzo ha già avviato azioni concrete
Integrare la biodiversità nelle strategie aziendali significa ridurre rischi legati alla crisi climatica, anticipare normative ambientali sempre più stringenti, rispondere alle pressioni sociali e dei mercati, e soprattutto accedere a capitali e strumenti finanziari improntati ai criteri ESG. Ma nonostante l’urgenza — e il crescente interesse degli investitori — le imprese italiane risultano ancora indietro.
Il report PoliMi: meno di un’azienda su tre è attiva
È quanto emerge dal nuovo Osservatorio “Innovazione per la Biodiversità”, promosso dalla POLIMI School of Management con la collaborazione dell’Istituto Sant’Anna e del National Biodiversity Future Center. Lo studio, finanziato attraverso fondi PNRR, offre la fotografia più aggiornata sullo stato dell’impegno imprenditoriale per la tutela degli ecosistemi.
Il dato centrale è uno: meno di un terzo delle imprese italiane ha già messo in campo azioni strutturate sulla biodiversità. Un ritardo che pesa, considerando che la perdita di specie, habitat e funzioni ecologiche è riconosciuta ormai come un fattore di rischio finanziario a tutti gli effetti.
Il report analizza anche l’ecosistema dell’innovazione: startup e PMI innovative che offrono tecnologie utili al monitoraggio ambientale, alla misurazione degli impatti, al ripristino degli ecosistemi e alla gestione sostenibile delle risorse. Soluzioni decisive, perché la tutela della biodiversità non può prescindere da dati precisi, sistemi di controllo e strumenti che permettano alle imprese di misurare ciò che fanno — e ciò che distruggono.
Il nodo agroalimentare: il settore più esposto, ma ancora frammentato
Lo studio dedica un approfondimento al comparto agroalimentare, il primo in Italia per dipendenza dai servizi ecosistemici e, paradossalmente, ancora tra i più in ritardo nell’adozione di interventi coordinati. La pressione sui suoli, la gestione idrica, la tutela degli impollinatori, la conservazione delle aree di pregio naturale: tutto entra nella competitività del settore.
Eppure, il quadro che emerge è fatto di iniziative isolate, sperimentazioni non integrate, strategie aziendali che raramente includono una visione sistemica della biodiversità. Una mancanza che rischia di trasformarsi in un freno competitivo in un mercato globale che, al contrario, corre verso modelli produttivi più sostenibili.
Un cambio di paradigma ancora da costruire
La ricerca del Politecnico di Milano è chiara: la biodiversità non è più un capitolo accessorio della sostenibilità aziendale, ma un asset strategico per chi vuole attrarre investitori, proteggere il proprio business dagli shock climatici e posizionarsi in un’economia che chiede sempre più trasparenza.
L’Italia sta iniziando a muoversi, ma lo fa lentamente. Servono piani industriali capaci di incorporare gli ecosistemi nelle decisioni strategiche, servono competenze tecniche e strumenti di monitoraggio, serve soprattutto la consapevolezza che la perdita di biodiversità ha un costo — economico, oltre che ambientale.
La transizione ecologica passa anche da qui: dalla capacità delle imprese di capire che senza natura non c’è mercato. E che il futuro competitivo del Paese si giocherà anche sul terreno, delicatissimo e oggi ancora trascurato, della tutela degli ecosistemi.