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Iran, scoperto un maxi giacimento d’oro a Shadan

- di: Marta Giannoni
 
Iran, scoperto un maxi giacimento d’oro a Shadan
Iran, l’oro di Shadan e la sfida alle sanzioni

Un giacimento “gigante” accende i riflettori, ma la vera partita si gioca tra valuta che crolla, acquisti di lingotti e un’economia costretta a inventarsi scorciatoie.

L’Iran ha trovato un modo brillante per far parlare di sé senza citare né centrifughe né missili: oro. L’annuncio di nuove riserve nella miniera di Shadan, nell’area orientale del Paese, arriva in un momento in cui Teheran vive un paradosso quotidiano: la politica proclama “resistenza”, l’economia misura la realtà in un altro linguaggio—quello di un rial sempre più debole e di prezzi che mordono.

Che cosa sappiamo davvero su Shadan

Le informazioni diffuse da media regionali che citano l’agenzia iraniana Fars parlano di una nuova “vena” con 7,95 milioni di tonnellate di minerale ossidato e 53,1 milioni di tonnellate di minerale solfuroso: in totale oltre 61 milioni di tonnellate di materiale aurifero potenziale. Un numero impressionante, ma da leggere con cautela: tonnellate di minerale non sono tonnellate di metallo.

In qualsiasi progetto minerario, la domanda decisiva è il “tenore”: quanti grammi d’oro si estraggono per tonnellata di roccia? Senza quel dato (e senza dettagli su costi energetici, acqua, reagenti e impianti), l’annuncio resta una fotografia a grandangolo: suggestiva, ma non ancora una stima affidabile di ricavi.

Perché l’oro è diventato un messaggio politico

Shadan non è solo (forse) una miniera più ricca: è un segnale. L’Iran, limitato dall’accesso ai mercati e al sistema finanziario globale, prova da anni a costruire “cuscinetti”: merce reale al posto di promesse di carta. In questo contesto, l’oro funziona come assicurazione (per lo Stato), rifugio (per le famiglie), e—soprattutto—strumento di comunicazione interna (“non siamo senza risorse”).

Il termometro che non mente: rial e inflazione

Se l’oro è la narrazione, il rial è la prova del fuoco. Nelle ultime settimane il tema è esploso anche sulle agenzie internazionali: la valuta ha toccato nuovi minimi, superando in alcuni momenti la soglia di circa 1,3 milioni di rial per dollaro sul mercato informale. Altre rilevazioni di inizio dicembre collocavano l’area di scambio “nera” attorno a 1,17–1,2 milioni.

E quando la moneta scivola, l’oro fa quello che ha sempre fatto: assorbe paura. Non a caso, anche fuori dall’Iran, il 2024 ha confermato una tendenza globale: le banche centrali hanno acquistato oltre 1.000 tonnellate di oro per il terzo anno consecutivo, secondo i dati del World Gold Council. Teheran, però, ha un incentivo in più: usare il metallo come “ponte” in un’economia che fatica ad agganciarsi a dollaro ed euro.

Sul fronte dei prezzi interni, i numeri internazionali descrivono un clima rovente: nelle proiezioni disponibili per il 2025 l’inflazione resta su livelli molto elevati (oltre il 40% nelle stime del Fondo monetario). In un ambiente del genere, monete e lingotti diventano un oggetto quasi domestico: non un investimento sofisticato, ma una forma di autodifesa.

Dall’oro al carburante: i conti dello Stato e la miccia sociale

La pressione sui bilanci si vede anche in altre scelte. A metà dicembre Teheran ha introdotto un sistema a più scaglioni che aumenta il costo della benzina per chi consuma di più, con l’obiettivo dichiarato di contenere domanda e sussidi. È una mossa tecnicamente comprensibile e politicamente delicata: i rial cambiano valore, ma la memoria collettiva ricorda bene quanto i prezzi del carburante possano diventare una miccia.

Il nodo industriale: estrarre oro dai solfuri non è un gioco

C’è poi un problema molto poco glamour: la chimica. La quota solfuroso indicata per Shadan è, in generale, più complessa da trattare rispetto al minerale ossidato. Servono processi e impianti avanzati, energia stabile, reagenti e controlli ambientali rigorosi. In un Paese sotto sanzioni, macchinari, know-how e finanziamenti non sono semplici da importare né da assicurare.

Qui si apre lo spazio per i “partner necessari”: Cina e Russia (e altri attori non occidentali) possono offrire canali, tecnologia e capitali, ma raramente lo fanno gratis. Il rischio è che l’oro—nato per aumentare autonomia—diventi anche una leva negoziale in mano a chi può entrare nella filiera.

Una scorciatoia, non una cura

Se Shadan manterrà le promesse, potrà aggiungere ossigeno: più export minerario, più entrate, più margine. Ma un giacimento, per quanto grande, non cancella da solo il “peso specifico” delle sanzioni: accesso al credito, assicurazioni marittime, pagamenti internazionali, investimenti, tecnologie.

L’oro, insomma, è una stampella robusta, non un trapianto. E proprio per questo è così utile alla narrativa di Teheran: brilla, rassicura, si presta ai titoli. Poi arriva la realtà—fatta di impianti, costi, energia, e soprattutto diplomazia—e chiede il conto. 

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