Ci sono numeri che fanno più rumore di un comizio. Nel 2023, in Italia, l’Iva che “dovrebbe” entrare e invece non arriva vale circa 25 miliardi di euro. Tradotto: su ogni 100 euro di gettito potenziale, 15 euro restano sul marciapiede. È un livello migliore del passato recente, ma basta guardare oltreconfine per capire perché a Bruxelles si accendono i riflettori: la media Ue viaggia molto più in basso.
Che cos’è davvero il “gap” Iva
Il punto chiave è il confronto tra gettito teorico (quanto l’imposta dovrebbe rendere, dati consumi e regole) e gettito effettivo (quanto entra davvero). In mezzo ci finiscono evasione, frodi, errori, insolvenze e fallimenti: un mix che cambia con il ciclo economico e con la qualità dei controlli.
Nel 2023 l’Europa nel complesso vede un ritorno di fiamma: il divario stimato sull’Iva potenziale risale fino a 128 miliardi. Segnale che la “normalizzazione” post-pandemia non è stata una passeggiata: economia più lenta, più crisi d’impresa, meno misure straordinarie che avevano temporaneamente sostenuto la compliance.
L’Italia: meglio di ieri, ma ancora sopra la media Ue
La fotografia di lungo periodo racconta due storie insieme. La prima: dal 2019 al 2023 il gap Iva italiano scende di oltre quattro punti, da circa 19% a circa 15%. La seconda: anche così, l’Italia resta tra i Paesi con un divario elevato e ben al di sopra della media europea, stimata intorno al 9,5%.
Il dato “nominale” (i 25 miliardi) è enorme perché enorme è anche la base imponibile italiana: quando la percentuale è alta, l’effetto in euro diventa immediatamente da prima pagina.
Perché il buco può tornare a crescere
Il 2023 è un anno di passaggio: alcune leve che avevano favorito l’emersione e la tracciabilità perdono spinta, mentre salgono pressioni più “prosaiche”. Da un lato, insolvenze e fallimenti incidono sulla riscossione: non sempre il non versato è frode, a volte è semplicemente cassa che non c’è. Dall’altro, la crescita dei pagamenti elettronici (utile perché lascia tracce) non è una linea retta infinita: basta un rallentamento per ridurre quell’effetto-coperta che negli anni recenti ha aiutato i controlli.
Le contromisure: e-fattura, dati e “precompilata” Iva
Qui arriva la parte più interessante, perché racconta come la lotta al gap si stia spostando dal “fischietto” alla tecnologia. Bruxelles riconosce che la digitalizzazione ha rafforzato la capacità di controllo e ridotto spazi di non conformità. In Italia, due strumenti vengono spesso citati come spartiacque:
- Fatturazione elettronica: più dati strutturati, più incroci rapidi, meno zone d’ombra nei passaggi B2B e B2G.
- Dichiarazione/bozze Iva precompilate: l’amministrazione prova a trasformare i dati già in pancia (fatture, corrispettivi, liquidazioni) in adempimenti più “guidati”, riducendo errori e alzando la probabilità di compliance.
In parallelo, la crescita dei pagamenti tracciabili funziona come un moltiplicatore: non “fa” l’imposta da sola, ma rende molto più difficile sparire nel nulla.
L’effetto collaterale che non ti aspetti: il Superbonus
Un pezzo della riduzione recente è stato attribuito anche a una dinamica particolare: gli incentivi edilizi hanno spinto una quota di attività a emergere, soprattutto in un settore tradizionalmente esposto a sotto-dichiarazioni. Non è una bacchetta magica, e infatti quando l’effetto si attenua, la traiettoria torna più sensibile al ciclo economico.
I “campioni” e i “fanalini”: la mappa europea
Il confronto tra Paesi serve a capire una cosa: non esiste un destino scritto. Alcuni Stati mantengono divari molto bassi, segno che processi, controlli e infrastrutture digitali possono fare la differenza. Nel 2023, tra i migliori risultati vengono indicati Paesi come Austria e Finlandia. All’estremo opposto, si trovano livelli molto elevati in Stati come Romania e Malta.
Non solo evasione: la montagna delle agevolazioni fiscali
Nel dibattito italiano spesso si confonde tutto: il gap Iva è un tema di compliance, ma accanto c’è un altro mondo che pesa sui conti pubblici. La Commissione punta il dito anche su un sistema di agevolazioni molto ampio e frammentato: non è evasione, ma riduce l’efficienza del prelievo e rende più complicato governare il gettito.
Per l’Italia, nelle analisi europee viene citato un ordine di grandezza rilevante di entrate “rinunciate” legate alle spese fiscali programmate, con un impatto che viene rappresentato come particolarmente elevato in rapporto al totale delle entrate.
La prossima mossa: ViDA e lo scambio dati quasi in tempo reale
Il capitolo futuro ha un nome da startup: ViDA (Vat in the Digital Age). L’idea è semplice e aggressiva: usare e-invoicing e reporting digitale più tempestivo, soprattutto sulle operazioni transfrontaliere, per mettere le amministrazioni nella condizione di intercettare schemi fraudolenti e anomalie prima che diventino voragini.
È anche qui che entra la politica: il commissario europeo Wopke Hoekstra, presentando il pacchetto, lega la riduzione dei divari fiscali a una parola che oggi in Ue vale oro: competitività. In sostanza: recuperare gettito “perso” permette di finanziare servizi e investimenti senza alzare le aliquote. E, almeno sulla carta, rende il gioco più equo tra chi paga e chi prova a svicolare.
Cosa guardare nel 2026
Tre segnali faranno da bussola:
- Andamento delle insolvenze: se aumentano, una fetta del gap può riaprirsi anche senza nuove frodi.
- Qualità dei dati: più integrazione tra fatture, pagamenti e dichiarazioni, più controlli mirati e meno “strascichi” casuali.
- Implementazione ViDA: se lo scambio dati accelera davvero, la finestra temporale per le frodi si restringe.
Morale: il gap Iva non è un mostro mitologico. È un indicatore che reagisce a economia, regole e tecnologia. E oggi la partita si gioca sempre più sui dati: chi li usa meglio, incassa di più.