Il 25 aprile è la nostra radice: un Paese distrutto ha scelto la dignità. E da quel “popolo senza esercito” è nata la Costituzione più bella del mondo.
(Foto: partigiani sfilano a Milano)
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Un’alba di libertà
Il 25 aprile 1945 l’Italia rinasce. Non metaforicamente: rinasce davvero, nella carne e nella coscienza. Dopo vent’anni di dittatura e cinque di guerra, con le città sventrate dai bombardamenti, le famiglie spezzate, la miseria in ogni angolo, il Paese ritrova sé stesso nelle parole dei partigiani che scendono dalle montagne, nei comitati di liberazione, nei treni pieni di sfollati che tornano a casa, o almeno a cercarne una. È la Liberazione. È la fine di un incubo. È la prima pagina di una nuova storia.
Ma quel giorno non è solo un punto d’arrivo. È soprattutto l’inizio. Perché la libertà, quella vera, non viene giù dal cielo: la si conquista e la si costruisce, centimetro per centimetro, diritto per diritto. La Resistenza non finisce il 25 aprile: cambia forma, ma resta. Diventa democrazia, scuola pubblica, diritto di voto alle donne, lavoro tutelato, libertà di pensiero, una Repubblica fondata non sull’obbedienza ma sulla partecipazione.
Dalle macerie, la dignità
Nel 1945 l’Italia è un Paese distrutto. Milano e Torino sono scheletri industriali anneriti, Napoli vive nei bassifondi, Roma è piena di sfollati e macerie. Ma è dalle rovine che nasce qualcosa di irripetibile: una Costituzione che non è solo un patto tra partiti, ma un sogno inciso nella legge. Non a caso i padri costituenti, che venivano da esperienze ideologiche diversissime, seppero mettere al centro parole come “lavoro”, “uguaglianza”, “ripudio della guerra”. Seppero immaginare un’Italia nuova, e in buona parte riuscirono a costruirla.
“Una Repubblica democratica fondata sul lavoro”: non era solo un principio, era una presa di posizione morale, dopo vent’anni di regime che voleva fondare lo Stato sulla forza, sull’obbedienza cieca, sulla guerra come destino. La Resistenza aveva vinto militarmente, ma stava vincendo davvero perché stava cambiando il senso stesso della convivenza.
Il futuro è nel passato
Oggi, 25 aprile 2025, celebriamo l’ottantesimo anniversario di quel giorno. Ma non è una ricorrenza stanca. È una chiamata. Non possiamo permetterci di relegare la Resistenza ai libri di scuola o alle cerimonie ufficiali. Perché la minaccia alla democrazia non è mai davvero sconfitta una volta per tutte. Ogni generazione ha il dovere di rinnovare la scelta: o libertà o barbarie.
In un mondo che sembra tornare indietro, che mette in discussione i diritti conquistati, che deride la politica come se fosse un’infezione da estirpare, serve più che mai ricordare che la democrazia è fatica. Che la libertà è un bene fragile. Che ogni diritto è stato, un giorno, una conquista. E che ogni conquista può essere revocata, se abbassiamo la guardia.
“Non ci si libera da soli”
C’è una frase che va ripetuta oggi più che mai: “Non ci si libera da soli”. La Liberazione fu collettiva. Fu fatta da giovani e vecchi, operai e borghesi, donne e uomini, preti e comunisti, monarchici e anarchici. Gente che si odiava in politica ma che seppe combattere insieme per una causa più grande. È una lezione che ci riguarda oggi, in un tempo di polarizzazioni sterili e solitudini digitali: o si costruisce insieme, o si crolla da soli.
Ottant’anni di libertà non sono un traguardo: sono un testimone
Questa giornata non è la celebrazione di un tempo perduto, è un’eredità viva. Non serve la retorica, servono scelte. Serve investire nella scuola, difendere la libertà di stampa, accogliere chi fugge dalle guerre, dire no al razzismo, spegnere l’odio e riaccendere il senso di comunità. Se oggi celebriamo la Liberazione, è per continuare a liberarci. Dall’ignoranza, dalla paura, dall’indifferenza.
Perché la Resistenza, in fondo, è ancora il nome della nostra speranza.