Luca Serianni - In memoriam

- di: Teodosio Orlando
 
Tre mesi fa ci lasciava Luca Serianni, colui che a buona ragione poteva essere definito il più autorevole linguista italiano, e insieme l’ultimo grande maestro di una scuola di rigore, scienza e alto magistero. Una scuola che si potrebbe a buon diritto definire leggendaria, come Bandelisco, nome quasi “borgesiano” di una città da lui sognata da bambino,  con il quale aveva l’abitudine di associare il suo indirizzo di posta elettronica.

Il ricordo di Luca Serianni

Serianni è morto all’Ospedale San Camillo di Roma, il 21 luglio scorso, dopo tre giorni di coma in seguito a un tragico quanto inaspettato incidente stradale occorsogli sulle strisce pedonali di una via del Lido di Ostia, il quartiere “marittimo” di Roma dove abitava da sempre. Sorte tragica che, beffardamente, lo accomuna a due altri grandi maestri degli studi linguistici, il semiologo francese Roland Barthes e l’antichista italiano Giorgio Pasquali, anch’essi periti dopo essere stati investiti sulle strade di Parigi e di Belluno.

La coralità del lutto che ha accompagnato la sua triste scomparsa è stata letteralmente impressionante: alla “doppia” cerimonia funebre che ha scandito il suo commiato (quella “accademica”, ossia la camera ardente a Roma “La Sapienza”, con i discorsi di commemorazione di discepoli e autorità; e quella religiosa, tenutasi presso la chiesa Regina Pacis di Ostia) si sono assiepate migliaia di persone, tutte protese in un saluto commosso, al tempo stesso pervaso da un’infinita tristezza e da una sconfinata gratitudine. Alcuni tratti della sua umanità e disponibilità avevano assunto dei toni che quasi sconfinavano nella leggenda: dalla comunicazione del suo numero di telefono privato (fisso) per i discepoli più stretti, fino all’uso di una penna di colore verde (accanto alle tradizionali matite rosse e blu, usate per segnalare la gravità degli errori) per mettere in evidenza le parti più originali. o meglio riuscite, di tesine, elaborati e dissertazioni di laurea e di dottorato: e coloro che hanno avuto la fortuna di averlo come Doktorvater – per usare una bella espressione tedesca – non potranno mai dimenticare quella combinazione di acribia e di scholarship (anglicismo una volta tanto pertinente) che ha così fortemente connotato la sua figura di studioso. E non è un caso che lo stesso presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, si sia recato di persona alla camera ardente universitaria per rendere omaggio a Serianni e porgergli l’ultimo saluto. E lì, in quell’Aula 1 (seconda, per dimensioni, alla sola Aula Magna), dove il grande linguista tenne lezione per quasi 40 anni e dove il 14 giugno 2017 pronunciò la memorabile lectio magistralis di commiato, hanno voluto convergere, oltre a centinaia di studenti e colleghi, anche il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, il sindaco di Roma Roberto Gualtieri e la rettrice dell’Università, Antonella Polimeni, che si è soffermata brevemente e icasticamente su diversi aspetti della straordinaria personalità di Serianni.

Un’ex studentessa della facoltà di Lettere alla Sapienza ha voluto suggellare l’addio al professor Serianni riandando con la memoria alla sua ultima lezione, dedicata all’insegnamento della lingua italiana, che «andrebbe fatta leggere a chi inizia a lavorare come professore, come a un medico il giuramento d’Ippocrate».

Al centro il feretro, alle spalle la grande lavagna verde in ardesia dove vergava gli schemi delle sue lezioni, su cui campeggia la sua foto, con la dedica: «La tua Sapienza ti saluta». In qualche modo sembra di ritornare a cinque anni fa, quando nell’aula assiepatissima non si limitò a parlare dell’insegnamento della lingua italiana. Andò ben oltre, manifestando con parole misurate (ma segretamente intrise di meditata passione) la missione che perseguiva nel trasmettere e condividere le sue conoscenze, l’austera serietà e il rigore delle sue ricerche, mai fini a sé stesse (espressione da scrivere rigorosamente con l’accento, come non si stancava mai di raccomandare, senza pedanteria). Per lui era altresì fondamentale il richiamo alla Costituzione, sostanziato soprattutto dall’articolo 54 («I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore»), che amava citare senza enfasi retorica, ma con quel senso del dovere in cui si esprime la vera deontologia del funzionario statale (Serianni era ben consapevole del fatto che nel funzionario pubblico «risiede l’intelligenza educata e la coscienza giuridica della massa di un popolo», G. W. F. Hegel, Filosofia del diritto, § 297).

Egli si sentiva a tal punto responsabile della formazione delle nuove generazioni da affermare (lo fece in varie occasioni) che per lui gli studenti rappresentavano “lo Stato”, con una pregnante sineddoche che dimostrava la stima che nutriva per loro, unita alla soddisfazione nel coinvolgerli anche nelle più ardue trattazioni filologiche. E nella lezione finale, anziché abbandonarsi a deprecazioni nostalgiche da laudator temporis acti sul presunto basso livello culturale dei giovani odierni, espresse un’incredibile fiducia negli studenti, ciascuno dei quali, per lui, doveva rappresentare una scommessa pregna di futuro, un progetto per l’avvenire su cui misurare l’efficacia formativa dei docenti medesimi. Si compiacque di sottolineare la sempre maggiore competenza nelle lingue straniere di molti suoi studenti o la familiarità che avevano con la musica “forte” (come il grande musicologo Quirino Principe ama definire la musica “colta” lato sensu), da intendersi anche come padronanza di uno strumento musicale.

Le sue lezioni avevano spesso il sapore di viaggi di scoperta, con quelle caratteristiche che un altro grande intellettuale recentemente scomparso, il filosofo Remo Bodei, ha paragonato a un’avventura che per il protagonista presenta «esiti ignoti, fino a quando non trova una soluzione che dia retroattivamente risposta alle anomalie riscontrate e trasformi la teoria precedente in caso particolare di quella nuova». (Una scintilla di fuoco. Invito alla filosofia). E in questo Serianni coinvolgeva il suo uditorio, di qualsiasi argomento parlasse, sia che si trattasse di analizzare i latinismi nel Canzoniere di Petrarca o nelle liriche di Carducci, sia che dovesse commentare i neologismi del linguaggio quotidiano, unendo rigore e leggerezza, erudizione e sensibilità per il presente. Pochi erano capaci come lui di aprire dei sentieri che, attraverso una serie di passaggi ferrei e necessari, delineavano la storia e la diacronia di ogni singola parola. Nel suo eloquio, le parole di cui discorreva sembravano quasi assumere vita propria, e nel contempo si associavano al suo vissuto personale, in un singolare connubio tra austerità, rigore scientifico e narrazione in cui l’io dell’uomo Serianni era al centro della lezione: per citare Umberto Eco, «se dico io, lo faccio in quanto sono memoria di tutti i miei momenti passati, la somma di tutto ciò che ricordo» (L’isola del giorno prima).

Con Serianni avevo avuto un rapporto di collaborazione dal 2001 al 2004, dato che redassi circa 500 lemmi per l’edizione 2004 del Devoto-Oli, da lui supervisionata: ricordo l’assoluto rispetto che ebbe per le mie proposte di definizione, su cui intervenne solo quando necessario, per chiarire e rendere più comprensibile il testo, ma rispettando i contenuti in modo scientificamente impeccabile.

In proposito, ricorderò un incontro con Serianni e un altro grande linguista, anch’egli recentemente scomparso, Tullio De Mauro: era il 2015, e, nelle pause di un convegno romano sul futuro del liceo classico, segnalai ai due illustri studiosi un neologismo che mi era stato comunicato da una studentessa liceale: si trattava di “eteronormativo”. Di primo acchito, pensai che si trattasse di un sinonimo di “eteronomo”, termine filosofico di antica “nobiltà”, usato già da Kant, e che indica ciò che riceve da fuori di sé la norma della propria azione (contrapposto ad autonomo). E invece, come scoprii da una ricognizione su varie pubblicazioni filosofiche recenti, “eteronormativo” significa tutt’altro: designa  un modello culturale in cui l’eterosessualità sia percepita come normale, e dunque attesa e data per scontata nella popolazione, a svantaggio di altri orientamenti sessuali ritenuti anomali e quindi da scoraggiare.

Furono entrambi molto cordiali: De Mauro non ricordava se il termine fosse presente nel supplemento al Grande dizionario italiano dell’uso, da lui diretto, ma tendeva ad escluderlo. Entrambi ammisero francamente di non conoscerlo, almeno non nell’accezione dei cosiddetti “gender studies”. Ma Serianni fece qualcosa di più: estrasse un taccuino, prese diligentemente nota del termine e promise di scrivere qualcosa in merito. Non so se poi abbia mantenuto la promessa: ritengo più probabile che abbia scritto qualcosa che riemergerà tra gli inediti, non appena qualcuno si preoccuperà di renderli di pubblico dominio. Quello che è certo è che la sua sensibilità nei confronti dell’evoluzione della lingua lo rese progressivamente meno rigido e meno debitore del modello neopuristico: ancora negli anni ’90 si guardava bene dall’utilizzare un anglicismo come editing, preferendogli il “più italiano” revisione, ma di recente non ha avuto remore nell’accogliere un neologismo ibrido anglo-italiano, come friendzonare, nell’ultima edizione del Devoto-Oli, persuaso che il compito del lessicografo sia piuttosto quello di registrare l’evoluzione della lingua che di censurare i neologismi. Quest’apparente cambio di posizione non lo esimeva poi dal continuare a suggerire, con moderazione e discrezione, i migliori traducenti italiani per molti, troppi, anglicismi ormai dilaganti. E in quest’ottica si colloca l’attività del gruppo di lavoro “Incipit”, costituito presso l’Accademia della Crusca e di cui è stato tra i fondatori: esso ha il compito di esprimere un parere sui forestierismi di nuovo arrivo impiegati nel campo della vita civile e sociale, respingendo ogni autoritarismo linguistico, e suggerendo alternative agli operatori della comunicazione e ai politici, attraverso la riflessione e lo sviluppo di una migliore coscienza linguistica e civile. In ciò si rifletteva anche la sua concezione dell’insegnamento. Come infatti ricordò nella lezione conclusiva, «insegnare è soprattutto trasmettere un certo modo di vedere le cose, da una generazione all’altra». Sicché non ebbe esitazioni a citare, in singolare connubio, sia i maestri che resero più chiara la sua strada, sia i numerosi allievi, di cui disse: «il merito non va a me, ma alle loro capacità». I maestri, per Serianni, «assolvono i loro compiti se si limitano a riconoscere i talenti e a valorizzarli, senza coartare in nessun senso le rispettive inclinazioni di studio». Perché, come ancora ebbe a dire nella lezione conclusiva, chi ha scelto l’insegnamento ha «scommesso sui propri scolari, e in generale sui giovani, sulla loro capacità di apprendere quale che sia il punto di partenza» e «non può prendersi il lusso di essere pessimista». E in una sorta di interrogazione retorica, chiese ai suoi studenti: «Sapete cosa rappresentate per me? Immagino che non lo sappiate. Voi rappresentate lo Stato».

Parole a cui seguì un applauso senza fine, mestamente ripetuto nella cerimonia d’addio alla Sapienza, suggellata da un intervento del professor Giuseppe Patota, il primo laureato di Serianni, che ha evidenziato la profonda umanità del grande linguista: «Tredici giorni fa mi hai fatto leggere l’ultima pubblicazione, intitolata La lingua può non bastare, che uscirà l’anno prossimo. […] È paradossale, ma per molti di noi – o almeno per me, che in questo momento sto parlando per tutti – la storia della lingua italiana è l’ultima delle cose che ci hai insegnato. Prima della storia della lingua ci hai insegnato la correttezza, l’onestà, il senso del dovere e quello dello Stato».

Da cattedratico universitario (che da giovane aveva però anche insegnato nei licei), era ben conscio del fatto che molti dei suoi studenti avrebbero abbracciato la carriera della docenza secondaria: da qui la sua grande attenzione per il mondo della scuola, declinata in varie forme, dalla partecipazione a corsi di aggiornamento per insegnanti alla presidenza della Fondazione “I Lincei per la scuola”, con cui la prestigiosa Accademia organizzava corsi per insegnanti, ricchi di contenuti e di didattica virtuosa, serenamente immune dalle più corrive mode pedagogistiche.

Negli ultimi anni poi, riconnettendosi idealmente al magistero di Tullio De Mauro (da cui lo dividevano alcuni aspetti “ideologici”, ma con cui condivideva un forte “sentimento della lingua”, per citare il titolo di uno dei suoi ultimi libri), amava ribadire l’importanza della lingua italiana come strumento di cittadinanza, sulla base delle parole della Costituzione. E non gli furono estranee conferenze nell’ambito di progetti di pedagogia popolare, tenute in vari municipi di Roma, segnatamente il III (Montesacro), dove pronunciò memorabili lezioni al capolinea della metropolitana Jonio e al centro commerciale Porta di Roma, parlando di uguaglianza e di padronanza della lingua, delle “mille lingue di Roma” e dell’evoluzione dell’italiano contemporaneo; o nel X municipio (Ostia), dove tenne applauditissime lecturae Dantis presso la Parrocchia Regina Pacis, scelta che alludeva anche a una fede cattolica vissuta profondamente e senza nessuna ostentazione.

Tra le tante sue eredità, vorrei sottolineare quella costituita dalla monumentale Grammatica italiana (uscita per i tipi della Utet nel 1988 e in seconda edizione nel 1989), la prima (e finora unica) descrizione della lingua italiana che sia riuscita a contemperare un’impostazione tradizionale con le suggestioni della linguistica moderna, offrendo una trattazione completa, esaustiva e coerente. Anche per chi non ne avesse sposato i presupposti, era comunque diventata un riferimento ineludibile, con cui confrontarsi dialetticamente. Di rilievo è il fatto che essa non nasconda anche un’idea di norma linguistica, certo non angusta, e pensata per dirigere e indirizzare, più che per prescrivere e proscrivere in modo dogmatico. La norma è intesa non come un’idea platonica immutabile ma come descrizione statisticamente affidabile dell’uso dei migliori scrittori e dei parlanti più consapevoli, continuamente rinegoziata e storicamente determinata, con una ripresa delle teorie linguistiche di Eugenio Coseriu e, più alla lontana, delle dottrine filosofiche del secondo Wittgenstein: le norme sono nozioni in continua evoluzione, che riguardano molto di più gli usi della parole (saussurianamente intesa) in una comunità che le forme linguistiche astratte. Se in Italia l’Accademia della Crusca esercitasse una funzione normativa ufficiale e istituzionale (come in altri paesi l’Académie française e la Real Academia Española), sarebbe auspicabile che tale grammatica (di cui abbiamo atteso a lungo un’eventuale terza edizione, che forse potrebbe essere realizzata dai suoi allievi e continuatori), con il “marchio di fabbrica” dell’Accademia, divenisse la “grammatica ufficiale” della nostra lingua.

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