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Il parroco di Mediterranea sotto sorveglianza: don Mattia Ferrari nel mirino degli investigatori

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Il parroco di Mediterranea sotto sorveglianza: don Mattia Ferrari nel mirino degli investigatori

Don Mattia Ferrari, giovane sacerdote della diocesi di Modena, noto per il suo impegno a fianco dei migranti a bordo delle navi della Ong Mediterranea, sarebbe stato posto sotto osservazione dagli apparati di sicurezza. Il suo nome emerge tra quelli monitorati nel quadro delle attività investigative su presunti legami tra organizzazioni non governative e reti di scafisti operanti nel Mediterraneo.

Il parroco di Mediterranea sotto sorveglianza: don Mattia Ferrari nel mirino degli investigatori

Un destino simile a quello di Luca Casarini, coordinatore della stessa Ong, già oggetto di attenzioni da parte degli inquirenti. Ma qual è la posizione di don Mattia? E come si inserisce il suo caso nel contesto più ampio delle politiche di controllo nei confronti delle organizzazioni umanitarie che operano in mare?

Don Ferrari si è sempre distinto per il suo approccio diretto, per l’impegno concreto a fianco dei più deboli, e per la sua presenza fisica sulle imbarcazioni che soccorrono i migranti. Dalla sua ordinazione, avvenuta appena cinque anni fa, ha dedicato il suo ministero a dare sostegno non solo spirituale, ma anche umano e materiale a coloro che rischiano la vita attraversando il Mediterraneo. Una scelta che lo ha portato a salire più volte sulle navi della Mediterranea, condividendo giorni e notti con equipaggi e naufraghi, ascoltando le storie di chi fugge da guerre, persecuzioni e miseria.

Secondo le ricostruzioni, don Mattia non sarebbe accusato di alcun reato, ma risulterebbe comunque citato nei documenti investigativi relativi alle operazioni di salvataggio in mare. Le autorità avrebbero iniziato a monitorarlo, ritenendo che il suo ruolo di riferimento spirituale per i volontari e i migranti potesse giustificare un’attenzione particolare. Tuttavia, fonti vicine al sacerdote sottolineano come tutta la sua attività sia stata sempre condotta alla luce del sole, con grande trasparenza e nel rispetto delle leggi italiane e internazionali.

“Salvare vite non può essere un crimine” è uno dei motti che spesso don Mattia ha pronunciato durante le sue omelie, nel tentativo di sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema che lui considera non negoziabile. Negli ultimi anni, la sua predicazione ha spesso toccato temi legati all’accoglienza e alla giustizia sociale, invitando la comunità cattolica a non voltare le spalle a chi cerca una seconda possibilità. Le sue parole, così come il suo operato, gli hanno guadagnato il rispetto di molti, ma anche critiche da parte di coloro che vedono nelle Ong e nei loro sostenitori figure controverse, se non addirittura conniventi con il traffico di esseri umani.

La sorveglianza nei confronti di don Ferrari solleva domande più ampie sul ruolo delle organizzazioni religiose e della società civile in situazioni di emergenza umanitaria. Quando un prete decide di essere presente laddove le persone rischiano la vita, si assume una responsabilità che va oltre il semplice conforto spirituale. In molti vedono in questo gesto una forma alta di carità cristiana, ma evidentemente non manca chi lo interpreta come un possibile elemento di rischio o di disturbo rispetto alle dinamiche ufficiali di gestione delle migrazioni.

Don Mattia, da parte sua, non sembra farsi intimidire. Ha ribadito più volte di agire spinto esclusivamente dal dovere evangelico di accogliere lo straniero, di vestire l’ignudo e di visitare l’ammalato. Per lui, la vicinanza ai migranti non è una scelta politica, ma una testimonianza di fede. Eppure, questa convinzione lo ha portato a essere etichettato come figura scomoda in un contesto in cui il tema migratorio è terreno di scontri politici, sociali e mediatici.

Mentre la Mediterranea continua le sue operazioni di salvataggio, e mentre le autorità mantengono alta l’attenzione sui suoi componenti, la vicenda di don Mattia Ferrari diventa emblematica di una tensione crescente: quella tra la necessità di garantire la sicurezza nazionale e la volontà di non reprimere le attività umanitarie e religiose. Quale sarà il futuro di questo giovane sacerdote? Riuscirà a continuare il suo lavoro senza ulteriori interferenze? Domande che restano aperte, in un Paese dove il confine tra aiuto umanitario e sospetto sembra farsi ogni giorno più sottile.

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