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Meloni cauta sui dazi: “Bene l’accordo, ma vediamo i dettagli”

- di: Bruno Legni
 
Meloni cauta sui dazi: “Bene l’accordo, ma vediamo i dettagli”
Dopo settimane di incertezza, la premier accoglie con prudenza l’intesa Usa-Ue sulle tariffe. Resta il nodo del 15% e delle esenzioni settoriali. Mentre le opposizioni parlano di resa all’America di Trump, il governo difende la strategia negoziale: “Priorità era evitare lo scontro”.

L’accordo è arrivato, ma il giudizio è sospeso. Dall’Etiopia, dove guida la sua seconda missione per promuovere il Piano Mattei, Giorgia Meloni sceglie una linea di cautela sul compromesso raggiunto tra Stati Uniti e Unione Europea in materia di dazi. “Considero positivo che ci sia un accordo”, ha dichiarato la premier a margine del vertice ONU sui sistemi alimentari, ad Addis Abeba, aggiungendo però: “Ora vediamo i dettagli”. Una frase che fotografa, più di altre, il bilanciamento delicato tra la necessità di chiudere un negoziato insidioso e il bisogno di tutelare gli interessi economici nazionali.

La fine dell’incertezza come primo obiettivo

A Palazzo Chigi lo considerano un risultato utile. “La cosa fondamentale era mettere la parola fine all’incertezza”, spiegano fonti governative. L’export italiano – come quello di altri Paesi Ue – aveva vissuto nelle ultime settimane una fase di stallo, in parte per la corsa preventiva agli stoccaggi, in parte per l’attesa di un esito ormai insostenibile sul piano politico e industriale. L’accordo non rispecchia le ambizioni iniziali di Roma – “dazi zero” e creazione della più grande area di libero scambio al mondo – ma viene letto comunque come un compromesso gestibile.

Il punto centrale è la soglia del 15%, che rappresenta l’architrave del nuovo regime tariffario concordato con Washington. “Non era l’obiettivo iniziale” – confermano da ambienti governativi – “ma può essere assorbito dal sistema produttivo italiano, soprattutto se modulato per proteggere i settori più esposti”.

I nodi da sciogliere: flat o aggiuntivo?

Tuttavia, non è chiaro se quel 15% sarà applicato come dazio aggiuntivo rispetto a quelli esistenti, o se rappresenterà una tariffa unica che li sostituisce. Un dettaglio tecnico, ma determinante per stimare l’impatto reale sulle imprese italiane. A questo si aggiunge la questione delle esenzioni: Roma, insieme a Parigi e Madrid, punta a escludere dal nuovo schema prodotti agricoli di punta come vino, formaggi a pasta dura e conserve, il cuore della competitività agroalimentare europea.

Il governo difende la linea negoziale

“Abbiamo sempre detto che il 10% sarebbe stato tollerabile, il 15% sostenibile, se ben articolato”, fanno sapere fonti dell’esecutivo. E in effetti il negoziato ha visto l’Italia giocare un ruolo attivo, pur nella consapevolezza dei limiti imposti dall’attuale equilibrio di forza transatlantico. Sotto traccia, l’irritazione per la pressione esercitata da Washington – e in particolare dall’amministrazione Trump – è palpabile, ma il governo ha scelto di puntare sul realismo: chiudere, portare a casa un’intesa, evitare una guerra commerciale aperta.

Le critiche delle opposizioni: “Capitolazione all’America trumpiana”

Per le opposizioni, però, l’accordo è una sconfitta. “Una resa totale”, ha attaccato Elly Schlein, secondo cui l’esecutivo ha mostrato “fallimentare accondiscendenza” verso Trump. Nicola Fratoianni ha parlato di “disastro sociale annunciato”, mentre Carlo Calenda ha definito l’intesa “una capitolazione” che “mette in ginocchio l’industria europea”. Il Movimento 5 Stelle è andato oltre, parlando di “disfatta” sia per Meloni sia per Ursula von der Leyen.

Il Pd, da parte sua, chiede un cambio di passo: “Servono vere politiche industriali, il governo non ne ha”, ha dichiarato Antonio Misiani, senatore e responsabile economico dem. Le accuse puntano dritte al cuore della strategia italiana: accettare un compromesso senza ottenere contropartite sufficienti, con il rischio di lasciare esposti interi comparti produttivi.

La variabile Pnrr e il contesto geopolitico

Da parte del governo si sottolinea però un elemento politico cruciale: il negoziato sui dazi ha congelato, di fatto, anche la revisione del Pnrr. “Non si poteva procedere senza sapere che impatto avrebbe avuto la partita con gli Usa”, spiega un esponente della maggioranza. La prospettiva era quella di evitare un doppio colpo al sistema industriale: incertezza fiscale da un lato, penalizzazioni sull’export dall’altro.

In parallelo, la collocazione geopolitica dell’Italia rimane legata al difficile equilibrio tra lealtà atlantica e difesa dell’autonomia europea. La scelta di Meloni di non sbilanciarsi troppo, accogliendo con sobrietà l’intesa ma riservandosi una valutazione puntuale, rispecchia questa postura. “Vedremo voce per voce”, è il mantra che filtra dal governo. Un modo per tenere la barra dritta, senza trasformare l’intesa in una bandiera, né in un boomerang.

Il silenzio calcolato di Bruxelles

Bruxelles, al momento, tace. La presidente della Commissione europea, attaccata duramente anche in Germania, non ha rilasciato dichiarazioni ufficiali dopo la chiusura dell’accordo. Un silenzio che evidenzia il disagio: la narrazione europea sul libero scambio è entrata in crisi di fronte all’assertività americana, e il rischio è che si sia aperto un precedente pericoloso.

In questo contesto, la prudenza di Meloni sembra più una necessità che una scelta. Non si può parlare di successo, né di fallimento conclamato. Ma l’Europa ha perso un’occasione per affermare un’idea forte di autonomia strategica, e l’Italia ha dovuto accontentarsi di contenere i danni. I dettagli – ancora una volta – faranno la differenza.

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