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Meloni e la guerra come linguaggio. In Senato il verbo è latino, ma la pace è lontana

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Meloni e la guerra come linguaggio. In Senato il verbo è latino, ma la pace è lontana
Giorgia Meloni entra in Senato con lo stesso passo con cui varca le soglie delle capitali europee: decisa, sorvegliata, in posa da prima della classe dell’Occidente bellico. Le sue parole, oggi, pesano più del solito. E non per quello che annunciano, ma per il modo in cui lo fanno: “Io la penso come i Romani: si vis pacem, para bellum”. La frase arriva dopo giorni di silenzi sulle bombe in Medioriente, mentre le immagini dei corpi sotto le macerie a Khan Yunis scorrono sulle TV di mezzo mondo. Il latino non è casuale. È lo scudo retorico dietro cui la presidente del Consiglio nasconde una dottrina che rifiuta la neutralità, e che sembra più affascinata dall’ordine militare che dalla diplomazia disarmata.

Meloni e la guerra come linguaggio. In Senato il verbo è latino, ma la pace è lontana

La premier parla mentre fuori da Palazzo Madama gli equilibri globali vacillano. La tregua tra Iran e Israele è appesa a un tweet di Trump, Gaza continua a sanguinare, e in Ucraina i morti aumentano ogni ora. Ma per Meloni la priorità è mostrare i muscoli, anche nel lessico. “L’Italia lavora alla soluzione due popoli-due Stati”, dice in aula. Ma non spiega come. Non dice quale ruolo può giocare Roma, quali canali siano stati attivati, quali pressioni esercitate su Tel Aviv. La formula è nota, ripetuta da vent’anni, logora come la fiducia di chi ci credeva davvero. L’impressione è che serva più a contenere le critiche che a cambiare le cose.

Schlein la interrompe: “Prepariamo la pace, non la guerra”


La voce contraria arriva da Elly Schlein. Tono netto, sguardo fisso su una premier che non la guarda. “La pace si costruisce, non si minaccia”, attacca. E ancora: “Se vogliamo davvero la pace, prepariamo la pace”. Le parole della segretaria dem rompono il cerchio narrativo costruito dal governo: quello di un’Italia matura, responsabile, forte nella voce e nei numeri. Ma nel racconto di Schlein l’Italia è tutt’altra cosa: un Paese che vende armi mentre dice di volere la pace, che firma dichiarazioni umanitarie mentre chiude le porte ai profughi. Una contraddizione che l’esecutivo evita di affrontare. Preferisce evocare il passato imperiale che rassicura l’elettorato, invece del presente crudo che lo interroga.

La pace come decorazione, non come progetto

Meloni insiste: “Siamo presenti in Medio Oriente con i nostri uomini e le nostre donne per la stabilità”. Stabilità, non giustizia. Equilibrio, non fine delle ostilità. La pace, in questa narrazione, è una condizione da difendere con le armi, non un obiettivo da costruire con la politica. È un’idea di ordine, non di trasformazione. Ma il contesto impone altro: Gaza è di nuovo campo di battaglia, il Sud del Libano brucia, e il futuro si scrive su linee che non sono né fronti né trattati, ma corpi, case, strade distrutte. Di tutto questo in aula non si parla. Si parla di deterrenza, di investimento in difesa europea, di coerenza con la NATO.

Un governo che sceglie l'ordine, non il dialogo

Il quadro che esce dall’aula è quello di un governo che ha scelto da che parte stare. E non solo nei teatri di guerra. La postura bellica è diventata postura di governo. L’alleanza con Trump, il disinteresse per le voci critiche dell’Europa, l’esaltazione dell’identità come scudo: tutto racconta di un’esecutiva che non media, non cerca alleanze multiple, non dialoga davvero. Ma risponde, si compatta, si chiude. La guerra è un linguaggio. Oggi, al Senato, è diventata grammatica di governo.
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