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Nessun accordo a Doha, Gaza resta in ostaggio del nulla

- di: Bruno Coletta
 
Nessun accordo a Doha, Gaza resta in ostaggio del nulla
Fallisce il primo round di negoziati tra Israele e Hamas: Netanyahu (foto) blocca tutto, Hamas rilancia. Le famiglie degli ostaggi: “Il tempo si è fermato”.

Lo stallo che brucia: a Doha finisce il nulla di fatto

Non si è sbloccato nulla, e forse nemmeno si è tentato davvero. Il primo round di colloqui indiretti tra Israele e Hamas, mediati da Qatar ed Egitto e ospitati a Doha, si è concluso il 7 luglio senza alcun risultato concreto sul cessate il fuoco a Gaza o sul rilascio degli ostaggi. Dietro le porte chiuse, il nulla.

Una fonte diplomatica anonima ha definito i colloqui “deludenti e brevi”, spiegando che la delegazione israeliana sarebbe arrivata a Doha “senza alcuna flessibilità negoziale”. Hamas, da parte sua, ha rilanciato con nuove richieste, definite “inaccettabili” dal premier israeliano Benjamin Netanyahu, che già domenica aveva dichiarato: “Non possiamo accettare modifiche che minino la nostra sicurezza”.

Una delegazione “senza mandato”

La delegazione inviata da Tel Aviv sarebbe giunta in Qatar “senza un mandato politico pieno per chiudere l’accordo”, ma con l’obiettivo di “verificare se ci siano le condizioni minime per proseguire”. Tradotto: una presenza di facciata, senza carte da giocare. Nessuna proposta alternativa, nessun margine.

Una trattativa congelata in partenza. Un alto funzionario dell’amministrazione Biden ha commentato con evidente frustrazione: “Siamo di fronte a un’occasione storica per fermare la guerra e riportare a casa gli ostaggi. Ma senza una volontà politica chiara da entrambe le parti, ogni sforzo sarà inutile”.

Le famiglie degli ostaggi: “Il tempo si è fermato”

Mentre i leader discutono e si accusano, fuori dai palazzi la disperazione si fa carne. In Israele, il Forum delle famiglie degli ostaggi ha espresso rabbia e dolore per il mancato accordo. “Il tempo si è fermato per noi da quel 7 ottobre. Ogni giorno senza notizie è un nuovo sequestro”, si legge in una nota. “Chiediamo a Netanyahu di smettere di usare i nostri cari come ostaggi politici”.

A Gaza sarebbero ancora trattenute almeno 120 persone, tra cui civili e soldati. Hamas ne userebbe il destino come leva negoziale, mentre Israele insiste per uno schema in tre fasi: rilascio progressivo degli ostaggi, cessate il fuoco temporaneo, ritiro graduale dell’esercito e piano di ricostruzione. Ma tutto è fermo al primo punto.

Il ruolo (impotente) degli alleati

Stati Uniti, Qatar ed Egitto continuano a fare da mediatori, ma con risultati evanescenti. La proposta attuale, sostenuta da Washington, riprende il piano delineato a fine maggio: tregua iniziale di sei settimane e rilascio di donne, bambini e anziani in cambio di detenuti palestinesi.

Ma Hamas chiede garanzie sulla fine definitiva della guerra e il completo ritiro israeliano, mentre Netanyahu – stretto tra le pressioni internazionali e quelle dell’estrema destra del suo governo – non vuole sentir parlare di resa. Un equilibrio impossibile.

“Non c’è una leadership disposta al compromesso, solo attori arroccati”, ha dichiarato il ricercatore Michael Wahid Hanna. “In questa fase, ogni progresso richiederebbe un salto politico che né Israele né Hamas sembrano pronti a compiere”.

Gaza nel vuoto, Israele in trincea

Nel frattempo, Gaza continua a morire. Oltre 38.000 palestinesi sarebbero rimasti uccisi dall’inizio dell’offensiva israeliana, con più di due milioni di persone in stato di emergenza umanitaria. Il sistema sanitario è al collasso, l’acqua potabile quasi inesistente, l’elettricità un ricordo.

E Israele non arretra. L’esercito continua le operazioni mirate nelle zone di Rafah e Khan Yunis, giustificate dal timore che Hamas si stia riorganizzando. Ma sul fronte interno cresce la frattura politica: mentre Netanyahu si barrica, l’opposizione lo accusa di sabotare ogni spiraglio di tregua per motivi elettorali. “Sta tirando la corda per restare a galla, non per salvare gli ostaggi”, ha dichiarato l’ex premier Yair Lapid.

E ora? Il negoziato che (non) verrà

Il prossimo round di colloqui, se ci sarà, dipenderà interamente da un cambiamento di postura di almeno una delle due parti. Fonti egiziane parlano di uno sforzo per far riprendere le trattative già entro il fine settimana. Ma anche a Doha si respira aria di pessimismo.

“Abbiamo visto questo film già troppe volte”, ha commentato un diplomatico europeo. “Hamas vuole garanzie internazionali, Israele vuole disarmo e controllo. Nessuno può ottenere tutto. Ma nel frattempo, la gente continua a morire”.

L’ostinazione come strategia, il futuro come ostaggio

Siamo a un punto morto. Non per mancanza di soluzioni, ma per l’incapacità – o la mancanza di volontà – di assumerle. Netanyahu ha trasformato il negoziato in un’arma politica, Hamas continua a usare il dolore come leva, e i mediatori internazionali sembrano relegati al ruolo di comparse in un dramma già scritto.

Nel mezzo, una popolazione intrappolata, ostaggi che non tornano, famiglie che non vivono.

L’illusione di una tregua imminente viene smentita, ancora una volta, dalla realtà. Una realtà fatta di stalli calcolati, cinismo strategico e diplomazia sterile. A Gaza e in Israele, il tempo non passa: si logora. E con esso, si logora la speranza.

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