Le guerre uccidono le persone, ma anche la terra. È questo il monito drammatico lanciato al Consiglio di Sicurezza dell’Onu da Inger Andersen, direttrice esecutiva del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (Unep), che ha chiesto con forza di riconoscere l’ecocidio come crimine internazionale, al pari dei crimini di guerra e contro l’umanità.
Onu, l’Unep: “Riconoscere l’ecocidio come crimine internazionale”
Secondo Andersen, “i conflitti moderni non distruggono solo città e vite umane, ma anche ecosistemi interi: lasciano dietro di sé fiumi inquinati, campi sterili e terre che non possono più rinascere”.
Dalla Striscia di Gaza al Sahel, passando per l’Ucraina e Haiti, il pianeta paga un tributo ambientale sempre più insostenibile, mentre l’intreccio tra guerra, crisi climatica e scarsità di risorse genera un circolo vizioso che alimenta nuove tensioni.
Gaza, Siria, Haiti: la geografia delle devastazioni
I numeri parlano da soli.
A Gaza, dal 2023, sono scomparse il 97% delle colture arboree, il 95% degli arbusti e l’82% delle colture annuali. L’acqua, contaminata da munizioni e liquami, è ormai quasi imbevibile, mentre 61 milioni di tonnellate di detriti minacciano di aggravare ulteriormente la contaminazione.
In Siria, la distruzione della diga di Kakhovka ha allagato oltre 600 chilometri quadrati di terreno, compromettendo la fertilità dei suoli e la sopravvivenza delle comunità rurali.
E ad Haiti, l’erosione e l’inquinamento delle acque stanno favorendo il ritorno del colera, a riprova di quanto fragile sia l’equilibrio tra ambiente e salute pubblica.
“Le guerre lasciano città in rovina e popoli distrutti, ma anche terre morte”, ha detto Andersen, “e la natura diventa insieme vittima e veicolo dell’insicurezza globale”.
Il clima come detonatore dei conflitti
L’Unep osserva come il cambiamento climatico amplifichi tensioni religiose, etniche e territoriali, aggravando le rivalità per l’acqua e la terra.
Nelle pianure del Sahel o sugli altopiani afghani, la scarsità idrica, la perdita dei raccolti e gli incendi boschivi stanno provocando sfollamenti di massa e nuove lotte per le risorse.
Secondo Andersen, “stiamo assistendo a una nuova forma di conflitto, dove la devastazione ambientale non è solo una conseguenza della guerra, ma una delle sue cause più potenti”.
La distruzione della natura non è più un effetto collaterale, ma un’arma strategica: desertificare, avvelenare, prosciugare diventano atti di dominio, e la natura un bersaglio di guerra.
L’appello all’Onu: “Colmare il vuoto giuridico”
Sul piano del diritto internazionale, la denuncia più forte è arrivata da Charles C. Jalloh, membro della Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite, che ha invitato i Paesi membri a colmare il vuoto giuridico che oggi permette di distruggere gli ecosistemi in tempo di guerra senza conseguenze penali.
“È necessario riconoscere l’ecocidio come un crimine autonomo, accanto ai crimini di guerra e contro l’umanità”, ha detto Jalloh, chiedendo anche la creazione di un meccanismo Onu per monitorare e compensare i danni ambientali legati ai conflitti.
Un sistema che permetta di raccogliere prove, quantificare le perdite e sostenere la ricostruzione ecologica delle aree devastate.
“Proteggere il pianeta è prevenire la guerra”
Il messaggio finale, ribadito in aula, è semplice e radicale: non ci sarà pace senza tutela dell’ambiente.
“Proteggere il pianeta – ha concluso Andersen – significa evitare che la guerra metta radici nella terra”.
Un concetto che segna un cambio di paradigma nella diplomazia internazionale: non più solo sicurezza militare, ma anche sicurezza ecologica come fondamento della stabilità globale.
Nel mondo delle guerre per l’acqua, del clima che diventa arma e della terra che muore, l’appello delle Nazioni Unite è una chiamata alla responsabilità collettiva: dare un nome giuridico alla distruzione della natura, perché senza giustizia ambientale, non ci sarà giustizia umana.