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Pensione a 70 anni? L’allarme Ocse sul futuro dell’Italia

- di: Bruno Coletta
 
Pensione a 70 anni? L’allarme Ocse sul futuro dell’Italia
Con l’invecchiamento demografico lavorare più a lungo sembra inevitabile.

Secondo il rapporto “Pensions at a Glance 2025” dell’Ocse, l’Italia rientra nel ristretto gruppo di paesi in cui l’età “normale” di pensionamento potrebbe avvicinarsi, e in alcuni casi raggiungere, i 70 anni nei prossimi decenni. Il documento mette nero su bianco una tendenza che da anni aleggia nel dibattito pubblico: per garantire la sostenibilità del sistema, le carriere lavorative dovranno allungarsi.

L’Italia verso i 70 anni di pensione: cosa dicono i dati

Ad oggi, l’età legale per accedere alla pensione di vecchiaia in Italia è fissata a 67 anni. Il quadro delineato dall’Ocse guarda però alle generazioni che hanno iniziato a lavorare nel 2024: per loro, l’età media di uscita si attesterebbe, in prospettiva, attorno ai 66 anni per gli uomini e quasi 66 per le donne, con un ulteriore innalzamento previsto nei paesi dove le regole sono già agganciate all’aspettativa di vita.

All’interno di questa fascia, l’Italia è collocata tra i paesi dove l’età effettiva di pensionamento potrà spingersi fino a 70 anni o oltre, insieme a economie avanzate come Danimarca, Svezia, Olanda ed Estonia. Non si tratta di un fulmine a ciel sereno, ma della traduzione numerica di una dinamica chiara: meno lavoratori attivi, più pensionati da sostenere.

Nel nostro Paese, secondo le simulazioni del rapporto, la popolazione in età lavorativa (20-64 anni) è destinata a ridursi di oltre un terzo entro il 2060. Parallelamente, il rapporto tra over 65 e lavoratori crescerà in modo sensibile, spingendo in alto l’indice di dipendenza demografica. In altre parole, ci saranno sempre più anziani a carico di una platea sempre più ristretta di contribuenti.

Più lavoro senior ma resta il divario con l’Ocse

Un elemento positivo c’è, ma non basta. Negli ultimi dieci anni, il tasso di occupazione tra i 60 e i 64 anni in Italia è quasi raddoppiato. Arriva intorno al 47%, segno che il lavoro senior non è più un’eccezione. Tuttavia, il confronto internazionale resta impietoso: la media Ocse è ancora una decina di punti più in alto.

L’Ocse è piuttosto chiara: per reggere l’urto dell’invecchiamento, non basterà innalzare per legge l’età di pensione. Servirà un deciso cambio di passo su occupazione dei lavoratori maturi, formazione continua, salute nei luoghi di lavoro e politiche attive che rendano possibile, e non solo obbligatorio, lavorare più a lungo.

Aumentare l’età pensionabile senza creare condizioni reali di occupabilità rischia infatti di produrre una “terra di nessuno” fatta di disoccupati anziani, uscite anticipate penalizzanti e nuova pressione su strumenti di welfare che non sono pensati per sostituire la pensione.

La spesa previdenziale e il peso sul bilancio pubblico

Il rapporto ricorda che l’Italia è già oggi tra i paesi con la maggiore spesa pensionistica in rapporto al Pil, con un’incidenza che si aggira attorno al 16%. Una quota importante di questa spesa, sottolineano gli economisti, non è coperta dai contributi versati dai lavoratori, ma richiede risorse aggiuntive a carico della finanza pubblica.

Per correggere questo squilibrio, l’Italia ha introdotto progressivamente il sistema contributivo, che lega l’assegno pensionistico a quanto effettivamente versato nel corso della vita lavorativa. Secondo le elaborazioni contenute nel rapporto, ormai oltre nove nuovi pensionati su dieci ricadono, in tutto o in parte, nel perimetro contributivo.

Il rovescio della medaglia è chiaro: con carriere discontinue, salari bassi e lunghi periodi di lavoro precario, il montante contributivo rischia di essere insufficiente a garantire assegni adeguati. Senza interventi mirati, la combinazione di età più alta e pensioni più leggere potrebbe diventare esplosiva sul piano sociale.

Disuguaglianze di genere: il divario previdenziale resiste

Una delle pagine più delicate del rapporto è dedicata al divario di genere nelle pensioni. In media, nei paesi Ocse le donne percepiscono assegni sensibilmente inferiori rispetto agli uomini. Anche in Italia il quadro resta critico: il gap si è ridotto rispetto ai livelli di inizio anni Duemila, ma il distanziamento rimane significativo.

Le cause sono note ma ancora lontane dall’essere risolte: carriere lavorative più brevi, maggiori periodi di inattività legati alla cura dei figli o di familiari anziani, diffusione più limitata della previdenza complementare, maggiore concentrazione in settori a bassa retribuzione. Tutti fattori che, nel lungo periodo, si traducono in assegni più bassi.

Il rapporto insiste sull’esigenza di interventi mirati: politiche per la conciliazione, sostegno all’occupazione femminile, riconoscimento effettivo dei periodi di cura, promozione di una partecipazione paritaria alla previdenza integrativa. Senza una correzione strutturale, avverte l’analisi, il rischio è di ampliare ulteriormente la forbice fra pensioni maschili e femminili nelle generazioni più giovani.

Che cosa significa per il futuro dei lavoratori italiani

Se le proiezioni dell’Ocse dovessero concretizzarsi, per chi entra oggi nel mercato del lavoro l’idea di andare in pensione “prima dei 67 anni” rischia di diventare un ricordo d’altri tempi. Per molti, soprattutto tra i più giovani, il traguardo potrebbe spostarsi stabilmente attorno ai 70 anni.

In questo scenario, la domanda chiave non è solo “a che età andremo in pensione?”, ma “con quale qualità di vita e con quale reddito?”. Un sistema che si limita ad alzare l’età di pensionamento senza affrontare problemi come bassi salari, lavoro discontinuo, alta disoccupazione giovanile e divari territoriali rischia di trasferire sulle spalle delle nuove generazioni un doppio peso: più anni di lavoro e meno certezze sull’assegno finale.

A ciò si aggiunge il tema della produttività: con una popolazione che invecchia, investire in innovazione, formazione, tecnologia e salute sul lavoro non è un lusso, ma una condizione necessaria per evitare che la crescita economica si spenga mentre la spesa pensionistica continua a salire.

Commenti e reazioni: un allarme che apre un dibattito

Di fronte ai numeri dell’Ocse, il dibattito si riaccende. Da un lato c’è chi vede nell’innalzamento dell’età pensionabile una scelta inevitabile, l’unica compatibile con l’invecchiamento demografico e con conti pubblici già appesantiti. Dall’altro, sindacati ed esperti di welfare ricordano che non tutti i lavori sono uguali: per chi svolge attività usuranti, arrivare a 70 anni in fabbrica, in cantiere o in corsia può essere semplicemente impossibile.

In mezzo, si fanno strada proposte per una flessibilità in uscita più ampia, che permetta di conciliare sostenibilità finanziaria e tutela delle condizioni di vita reali delle persone. L’idea è quella di un sistema che non si basi solo su un’età rigida, ma tenga conto di storia contributiva, tipologia di lavoro, stato di salute e periodi di disoccupazione involontaria.

Il rapporto dell’Ocse non detta soluzioni precostituite, ma suona un campanello d’allarme: il tempo per intervenire non è infinito. Ogni anno di rinvio rende più difficile bilanciare il patto fra generazioni. L’Italia, con il suo carico di debito pubblico e il suo invecchiamento accelerato, è in prima linea in questa sfida.

La domanda finale, in controluce, è politica prima ancora che tecnica: quale prezzo siamo disposti a pagare per salvare il sistema pensionistico? Più anni di lavoro, più contributi, pensioni meno generose, nuove tasse, o una combinazione di tutto questo? Il confronto è appena iniziato, ma il messaggio dell’Ocse è chiaro: restare fermi non è un’opzione.

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