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Un pullman, dei sassi e l’idea che “tifo” possa valere una vita

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Un pullman, dei sassi e l’idea che “tifo” possa valere una vita

L’autopsia stabilirà quale è stato il colpo che ha ucciso Raffaele Marianella. Ma la perizia medica non potrà rispondere alla domanda più scomoda: perché un uomo di 65 anni che fa il proprio lavoro – portare a casa, in sicurezza, altre persone – possa finire vittima di un agguato travestito da “passione sportiva”.

Un pullman, dei sassi e l’idea che “tifo” possa valere una vita

Chi scaglia un sasso contro un pullman non vede un autista, non vede persone. Vede un bersaglio. E questa è, forse, la parte più agghiacciante: la trasformazione dell’altro in oggetto, in sagoma, in mascella da colpire per sentirsi parte di qualcosa.

Le indagini, e quello che resta fuori dalle indagini

Tre fermi, quattro indagati, altri nomi in arrivo. Telecamere, tabulati, ricostruzioni: la giustizia farà il suo corso. Ma tutto ciò riguarda il “chi”. La domanda più grave è il “come mai”. È sempre la stessa dinamica: appena ci convinciamo che gli stadi siano normalizzati e che le curve abbiano maturato anticorpi, una nuova violenza ci ricorda che sotto il livello apparente continua a scorrere un fiume carsico di rancore, territorialità, identità muscolare.
Ed è un rancore preventivo: non nasce da un torto subito, nasce dal bisogno di trovare qualcuno a cui imputarlo.

Quando il tifo diventa un surrogato di appartenenza
Ogni volta si dice che il problema è una minoranza. Può anche essere vero, numericamente. Ma le minoranze organizzate, quando agiscono, condizionano la percezione del tutto. C’è un momento in cui il tifo smette di essere comunità e diventa tribù. Quando l’avversario cessa di essere tale e diventa “nemico”, tanto vale dirlo: non è più sport, è guerra con tuta e sciarpa.

Il punto non è la partita, né il risultato. Il punto è l’investitura personale che alcuni cercano: senza un “noi contro loro” si sentono vuoti. E allora si mette in scena il copione più antico: il branco che ha bisogno di una vittima.

Un morto “laterale”, e quindi più rivelatore
Non è morto un atleta, o un tifoso durante uno scontro diretto. È morto un lavoratore, uno che probabilmente non aveva nemmeno il tempo e l’energia per seguire questi rituali mascherati da passione sportiva. Questo rende l’episodio ancora più rivelatore: l’innocente assoluto, quello che non è nemmeno dentro il gioco, viene toccato per primo.

Non si trattava di “difendere una curva”, ma di dimostrare appartenenza a qualcuno, qualcosa, qualunque cosa. Ed è quando l’identità diventa bisogno primario che scatta la furia: non per odio, ma per vuoto.

L’eco che resta
Ogni volta promettiamo che sarà l’ultima. Poi archivieremo anche questa. Ci saremo indignati con energia sufficiente, ma senza durata. Forse, invece, la domanda vera è più semplice: quanto vale una vita se basta una maglia diversa per metterla a rischio?

Raffaele Marianella guidava un pullman. Era la persona più neutra e più civile di tutta quella scena. Ed è lui a non esserci più. Lui che non giocava, non insultava, non partecipava. È questo, alla fine, che dovrebbe inquietarci più di ogni cosa.

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