Dazi record, caro-spesa e sondaggi in calo: per reagire, il presidente lancia una maxi-indagine su carne, semi e fertilizzanti, puntando il dito sulle aziende straniere. Ma i numeri suggeriscono che la stretta tariffaria pesa proprio su chi fa la spesa ogni giorno.
Negli Stati Uniti il carrello della spesa è diventato il vero termometro politico. Mentre i prezzi dei beni di prima necessità continuano a mordere, Donald Trump, tornato alla Casa Bianca dopo aver promesso di far finire l’inflazione “dal primo giorno”, vede i sondaggi scivolare e sceglie una nuova mossa spettacolare: indagare la filiera alimentare alla ricerca di presunti cartelli che gonfierebbero i prezzi, soprattutto quando in gioco ci sono multinazionali straniere.
Dietro lo slogan si intrecciano economia, geopolitica e tattica elettorale. Perché una parte del caro-vita è legata proprio alla sua scelta più identitaria: l’esplosione dei dazi.
L’ordine esecutivo e le nuove task force sul cibo
Con un ordine esecutivo firmato all’inizio di dicembre, Trump crea task force dedicate alla sicurezza della filiera alimentare all’interno del Dipartimento di Giustizia e della Federal Trade Commission. Il mandato è chiaro: passare al setaccio la catena del cibo per individuare possibili intese sui prezzi, pratiche di cartello e comportamenti anti-concorrenziali in settori chiave come carne, semi, fertilizzanti e altre forniture strategiche per l’agricoltura.
La Casa Bianca lega apertamente il dossier alla sicurezza nazionale: se segmenti cruciali della catena del cibo sono controllati da gruppi esteri, il rischio è che la leva dei prezzi venga usata non solo per massimizzare i profitti ma anche come strumento di pressione politica.
Il presidente presenta la mossa come un atto di difesa delle famiglie americane: “Non accetteremo che famiglie e agricoltori americani vengano stritolati da intese occulte sui prezzi”, insiste Trump, rivendicando la sintesi tra “America First” e difesa della concorrenza.
In realtà, l’iniziativa appare come il secondo tempo di una campagna già avviata contro i grandi gruppi della carne. Già a novembre, infatti, la Casa Bianca aveva dato mandato al Dipartimento di Giustizia di indagare i principali colossi del settore bovino per verificare se prezzi e margini record siano frutto di dinamiche di mercato oppure di manipolazioni coordinate.
Il carrello che pesa: cosa mostrano i numeri
Se ci si allontana dalle conferenze stampa e si guarda ai dati, l’immagine è meno semplice. L’inflazione complessiva negli Stati Uniti è scesa rispetto ai picchi post-pandemici, ma resta sopra la soglia del 2% che la Federal Reserve considera compatibile con la stabilità. Il principale indice seguito dalla banca centrale indica un aumento dei prezzi di circa il 2,8% su base annua, con la componente di fondo ancora elevata.
Nel dettaglio, i numeri più recenti mostrano che:
- i prezzi alimentari complessivi crescono intorno al 3% annuo;
- il cibo “a casa”, ovvero i prodotti da supermercato, si muove in un intervallo tra il 2,7% e oltre il 3% rispetto a un anno fa;
- il cibo “fuori casa”, cioè ristoranti e fast food, aumenta di quasi il 4% annuo, più dei supermercati.
Non siamo più in un’emergenza inflattiva come quella di qualche anno fa, ma per milioni di famiglie ogni decimale in più sulla spesa alimentare si sente. Studi di lungo periodo indicano che, dal 2019, il costo del cibo è cresciuto di oltre un terzo: un accumulo che grava soprattutto su redditi medio-bassi.
Non sorprende quindi che, in un recente sondaggio, tre americani su quattro dichiarino che i prezzi sembrano ancora “in forte aumento”, nonostante la narrazione ufficiale di un’inflazione ormai rientrata. E gli indici di fiducia confermano il malessere: la rilevazione dell’Università del Michigan registra un miglioramento solo marginale del sentiment, ma su livelli storicamente depressi, con gli intervistati che continuano a giudicare il costo della vita “troppo alto”, in particolare per alimentari e bollette.
Dazi alle stelle: il boomerang del “made in America a tutti i costi”
Al centro delle tensioni sui prezzi c’è il programma tariffario aggressivo voluto da Trump fin dal rientro alla Casa Bianca. Tra l’inizio dell’anno e l’autunno, l’aliquota media sui beni importati è salita da poco più del 2% a quasi il 17%, il livello più alto dagli anni Trenta secondo diverse stime economiche.
In teoria, i dazi servono a proteggere l’industria nazionale e a riportare la produzione in patria. Nella pratica, però, numerosi studi indicano che:
- i dazi hanno contribuito direttamente a una quota significativa dell’inflazione recente, spiegando da soli una parte dell’aumento dei prezzi al consumo;
- i listini di molti beni “tariffati” – dagli elettrodomestici all’elettronica, passando per alcuni prodotti alimentari importati – risultano al di sopra del trend stimato, con uno scostamento legato proprio alle misure tariffarie introdotte nel 2025.
Il meccanismo è semplice: se tassare l’import rende più cari gli input per agricoltori, trasformatori e distributori, il conto arriva inevitabilmente alle famiglie sotto forma di prezzi più alti sugli scaffali.
Non a caso una grande catena della distribuzione come Costco ha deciso di rivolgersi ai giudici, accusando l’amministrazione di aver abusato dei poteri di emergenza per imporre dazi di vasta portata con un impatto pesante sui costi a carico dei retailer. Sullo sfondo, diversi settori manifatturieri iniziano a collegare tagli di personale e delocalizzazioni proprio al nuovo contesto tariffario, parlando di “cambiamenti permanenti” nelle strategie produttive.
Dai prezzi ai “cartelli”: il cambio di bersaglio
In questo contesto, l’indagine sulla filiera alimentare ha anche un evidente valore politico-difensivo. Trump può presentarsi agli elettori spiegando che il caro-spesa non è colpa dei dazi, ma di un manipolo di grandi gruppi, spesso stranieri, che gonfiano i listini approfittando del loro potere di mercato.
L’ordine esecutivo cita esplicitamente possibili intese sui prezzi, abusi di posizione dominante e livelli eccessivi di concentrazione, richiamando perfino il rischio strategico nel caso di filiere controllate dall’estero. Un consigliere economico dell’amministrazione, riassumendo la linea del governo, sintetizza così la narrativa ufficiale: “Non è protezionismo, è difesa del portafoglio degli americani”.
Gli esperti di concorrenza, però, invitano alla prudenza. Indagini su presunti cartelli nel cibo non sono una novità: in passato le autorità federali hanno già puntato il faro sull’eccessiva concentrazione dell’industria della carne, sui grandi produttori di cereali e sui colossi dell’agrochimica. Si tratta di procedimenti complessi, che richiedono anni e prove solide. Come ricorda un giurista antitrust, “non bastano margini elevati o aumenti di prezzo per dimostrare l’esistenza di un cartello”.
L’umore del Paese: prezzi giù sulla carta, ma non al supermercato
La percezione, per un presidente, conta quanto i numeri. E qui la Casa Bianca ha un problema evidente. Mentre alcuni indicatori, come il calo dei prezzi della benzina ai minimi da oltre quattro anni, offrono un po’ di respiro, la sensazione diffusa è che “tutto costi comunque troppo”.
Il sondaggio che vede tre americani su quattro convinti che i prezzi stiano ancora correndo racconta un malessere trasversale a reddito, età e appartenenza politica. Nello stesso tempo, la fiducia dei consumatori risale di poco ma resta su livelli storicamente bassi: alla domanda su cosa li preoccupi di più, gli intervistati citano quasi sempre le stesse voci, cioè affitto, mutui, spesa alimentare e sanità.
Per Trump la sfida è duplice: deve convincere i cittadini che la colpa del caro-vita non è della sua crociata tariffaria e deve mostrare risultati concreti su ciò che interessa davvero agli elettori, cioè quanto pagano alla cassa del supermercato.
Cosa può cambiare davvero la maxi-indagine sul cibo
Dal punto di vista sostanziale, l’ordine esecutivo apre la strada a diversi possibili sviluppi. Le nuove task force potranno:
- avviare ispezioni approfondite nei bilanci e nelle strategie dei grandi gruppi della carne, dei semi e dei fertilizzanti;
- richiedere documenti, comunicazioni interne e dati sui prezzi per verificare la presenza di schemi coordinati;
- valutare eventuali vendite forzate di asset o il blocco di nuove acquisizioni, qualora vengano accertati livelli eccessivi di concentrazione.
Se le autorità riuscissero a dimostrare veri cartelli, le conseguenze potrebbero essere significative: multe miliardarie, obblighi di dismissione, maggiore concorrenza e, nel medio periodo, una possibile riduzione dei prezzi per agricoltori e consumatori.
Gli stessi esperti avvertono però che molti rincari sono legati a fattori strutturali – salari, energia, logistica, tensioni internazionali – più che a intese occulte. Inoltre, un’azione antitrust efficace richiede tempi lunghi, mentre il calendario politico corre assai più veloce. E finché i dazi resteranno elevati, una parte della pressione sui prezzi continuerà a essere generata dalla politica commerciale stessa.
La partita politica sul caro-spesa
Tutti i sondaggi concordano su un punto: l’economia è la lente principale con cui gli elettori giudicano il presidente. L’idea di Trump è chiara: trasformare un dossier potenzialmente pericoloso, quello dei dazi che pesano sui prezzi, in un terreno offensivo in cui può presentarsi come “sceriffo del mercato” contro i cartelli stranieri che approfitterebbero degli americani.
Dal fronte democratico la critica è netta: “Il presidente ha promesso di abbassare i prezzi e ha alzato le tariffe. Ora cerca un colpevole diverso da sé”, osserva un dirigente d’opposizione. Ma anche in parte del mondo conservatore non mancano perplessità, soprattutto tra i fautori del libero mercato, preoccupati che l’attivismo antitrust venga usato come arma politica e che la retorica contro le aziende straniere irrigidisca i rapporti con partner chiamati a rinegoziare gli accordi commerciali.
Tra dazi e cartelli: un equilibrio instabile
Alla fine la domanda resta semplice: gli americani vedranno davvero calare il conto della spesa? Se l’indagine su carne, semi e fertilizzanti porterà alla luce veri cartelli, le misure conseguenti potrebbero dare un contributo a ridurre i prezzi nel tempo. Finché però i dazi resteranno elevati, una parte del caro-vita continuerà a essere la diretta conseguenza di scelte politiche deliberate.
Trump gioca su due piani: da un lato rivendica i dazi come strumento di forza negoziale e di rinascita industriale; dall’altro promette di tagliare i prezzi puntando il dito contro le imprese. Il rischio è che la combinazione tra protezionismo e guerra ai presunti cartelli si traduca in un equilibrio instabile, in cui l’incertezza regolatoria e commerciale freni investimenti e concorrenza, invece di rafforzarla.
Per ora il verdetto più severo non arriva dai mercati ma dai carrelli: finché il conto alla cassa resterà pesante, la promessa di un’America “di nuovo accessibile” resterà sospesa tra slogan e realtà.